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Cgil, ecco come i sindacati difendono i lavoratori: mobbing e nessuna tutela

Simona ha lavorato per anni nel sindacato, sottopagata e mai assunta. Poi si è ribellata. E ha scoperto di non essere sola. L’incredibile caso di una dipendente per anni in nero e poi mandata a casa

Cgil, ecco come i sindacati 
difendono i lavoratori: 
mobbing e nessuna tutela

Lavoro nero, maltrattamenti. E poi pressanti inviti ad andarsene senza fare «troppo casino», in cambio di soldi. Se Guglielmo Epifani avesse cercato un esempio migliore per dimostrare cosa può succedere ai lavoratori quando qualcuno aggira le tutele, cioè i contratti e la legge, non ne avrebbe potuto trovarne uno migliore. Peccato che il datore di lavoro tirato in ballo in questo caso sia proprio la sua Cgil. E che il ricorso presentato al tribunale civile di Castrovillari da una ex dipendente del sindacato calabrese sia rivolto contro di lui, in quanto segretario generale nazionale. La vicenda emerge appunto dal ricorso e da una denuncia penale, presentati a ridosso dello sciopero generale indetto dalla sola Cgil a difesa dei diritti dei lavoratori. Diritti che, nel caso di Simona M., poco più che trentenne, sembrerebbero non essere stati rispettati. La storia è riassunta nella causa di lavoro e nella denuncia, presentate dagli avvocati Giovanni Caglianone e Vincenzo Belvedere.

L’ingresso nelle strutture del sindacato è arrivato attraverso un progetto di servizio civile dell’Arci. Simona viene destinata all’Inca Cgil di San Marco Argentano. Un anno a 433 euro al mese, passato con soddisfazione di tutti, tanto che al termine dei dodici mesi - si legge nel ricorso - le chiedono di rimanere nella Confederazione con una sorta di «temporanea collaborazione», in attesa di regolarizzazione. Il compenso scende a 250 euro mensili, ma Simona accetta entusiasta. È di sinistra, le piace lavorare nel patronato e sogna di difendere i diritti dei lavoratori.

Passano i mesi e poi gli anni, ma di regolarizzazione non c’è traccia. E nemmeno di aumenti dello stipendio. Risulta una collaboratrice, praticamente una volontaria, in realtà lavora a tempo pieno, fa trasferte, anche all’estero, programma le «ferie» come tutti i lavoratori dipendenti, solo che le sue sono di meno. Disagi che tollera perché le piace occuparsi di pensioni ed è brava, tanto che diventa il riferimento del patronato di San Marco Argentano, l’unica a sapere usare il programma informatico per le pratiche previdenziali. Poi crede alle promesse che le fanno i capi; il responsabile del patronato e il segretario della Cgil locale.

Dopo due anni le sembra di essere arrivata a due passi dal traguardo. Era un po’ delusa perché si era vista sorpassare da persone che di pensioni e pratiche non ne sapevano niente. I suoi capi decidono di ricompensarla. Non l’assumono né le aumentano lo stipendio, ma la mandano a Roma a seguire dei corsi riservati agli assunti all’Inca. Simona pensa sia la premessa per una regolarizzazione e invece niente.

Alle richieste di assunzione i responsabili si irrigidiscono e, si narra nel ricorso, parlano di «situazioni economiche e politiche sfavorevoli». Eppure il patronato va bene. Viene premiato per la produttività, anche grazie al lavoro di Simona. Come tutte queste strutture sindacali prende soldi pubblici per fare pratiche e i conti sono più che a posto. Le condizioni per assumere ci sarebbero, ma gli anni passano e il contratto si allontana sempre più.
Simona comincia a soffrirne e nel 2006 i medici le riscontrano una sindrome ansiosa depressiva, che sfocia anche nell’anoressia. Cercherebbe un altro lavoro, ma siamo in Calabria, non nel Triveneto. Poi il suo impiego le porta via tutta la giornata, e non le resta il tempo per andare a caccia di altre opportunità.

La scelta è obbligata, restare nella Cgil e fare valere i propri diritti. Minaccia di aprire un contenzioso e di spifferare tutto. E gli effetti si fanno sentire subito. Per Simona sembra aprirsi un altro spiraglio. O almeno così le sembra. Le offrono un’assunzione a Castrovillari con contratto part time da trasformare in full time in «5-6 mesi». La condizione spiega il ricorso è «dimenticare il passato», non sporgere denuncia «evitando di creare casini alla Cgil».
L’orario effettivo è da subito a tempo pieno. La paga è dignitosa, 670 euro, ma non basta perché Castrovillari è lontana da casa. Dopo cinque anni di lavoro si aspettava di più. Ma continua a credere alle promesse e prosegue a lavorare. Passano altri due anni, si arriva al 2008. Stesso copione: Simona pretende il rispetto dei patti. E, siccome non vuole regalare più nulla al suo datore, pretende di essere pagata per quanto vale e si impegna. E si attiene all’orario previsto dal contratto.

Un comportamento da sindacalista che fa imbufalire i sindacalisti. E ricominciano le pressioni. Come quelle documentate in una telefonata al segretario della Cgil di Castrovillari, che le spiega come il rispetto degli orari in un sindacato «sia un grave errore», se non «una intollerabile insubordinazione».
Lei non ci sta. E la sua, da bega locale della Cgil calabrese, diventa una questione nazionale. Scopre di non essere l’unica in quelle condizioni. Insieme a un’altra dipendente della Cgil con una storia come la sua, Simona - spiega nel ricorso - va a Roma per incontrare un esponente nazionale dell’Inca Cgil. Anche in quel caso le assicurano l’assunzione «dietro esplicita richiesta - denuncia - che il caso non finisca all’orecchio dei mass media». Questa volta però non ci crede. E ha ragione. Poco dopo, infatti, viene invitata in un bar di Cosenza dove incontra un altro responsabile del patronato. Lei chiede l’assunzione a tempo pieno e invece le viene proposto «il versamento da parte della Cgil della somma di 70mila euro in cambio delle dimissioni e del silenzio». Motivazione: aveva «già creato problemi, di certo ne avrebbe creati altri in futuro».

La somma è consistente, ma lei non ci sta di nuovo. Insiste sulla regolarizzazione. Le sue condizioni di salute si aggravano e trascorre gli ultimi mesi da dipendente Cgil in malattia. Tra i certificati che ha allegato alla causa, in uno si fa riferimento ad uno stato di prostrazione dovuto a mobbing. L’avvocato Caglianone per il momento non ha inteso contestare il mobbing alla Cgil ma si è riservato di farlo in seguito.

Nel tentativo di conciliazione, la replica della Cgil non lascia spazi a compromessi: «Tra le parti non si è mai instaurato un rapporto di lavoro subordinato». Simona viene licenziata perché supera il limite massimo dei giorni di malattia. Poi fa quello che farebbe chiunque, su consiglio di un sindacalista: avvia la causa e chiede i danni, non per il licenziamento, ma per tutto quello che ha passato. La richiesta di danni alla Cgil da parte di Simona è di 118.986 euro per differenze retributive; 269.957 per danni e 40mila per danno alla «vita di relazione». Quasi 430mila euro in tutto. Poi c’è una denuncia penale, dell’avvocato Vincenzo Belvedere nella quale si chiede di procedere per il reato di maltrattamenti e violenza nei confronti di due segretari locali della Cgil.

Ma nessuno, commenta l’avvocato Caglianone, la potrà risarcire per la salute e il tempo perso con il sindacato-datore di lavoro.

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