A che cosa serve mettere sul rogo Chirivì e i ghisa?

Che gli artigiani milanesi e lombardi – quelli che lavorano tanto e bene, pagano le tasse e faticano non poco a destreggiarsi nei labirinti della burocrazia – soffrano per la concorrenza selvaggia, più che sleale, degli abusivi di ogni etnia è comprensibile. Ed è anche giusto che chi ha responsabilità dirigenziali nella categoria si rivolga con energia alle pubbliche autorità perché la legge venga fatta rispettare. Non soltanto per tutelare gli artigiani regolari, ma per difendere i consumatori, dato che l’abusivismo favorisce piraterie, taroccature e pataccamenti vari. Gli abusivi sono più mobili delle piume al vento, talvolta, e per riacciuffarli, dopo un bidone bisogna proprio mettergli il sale sulla coda.
Tutti, d’accordo, dunque sulla necessità di far rispettare sempre e comunque, anche in questo settore, la legalità.
Pero, però... Sembra francamente eccessivo, o riduttivo, sostenere che un problema così complesso e così articolato nel tempo e nel territorio possa essere spiegato, e risolto, denunciando il comandante dei vigili urbani Antonio Chirivì.
È lui l’untore? Ha fatto sempre e tutto lui? Avrebbe dovuto ordinare un blitz dei «ghisa d’assalto»? Soluzione improbabile, quest’ultima, l’impiego della forza pubblica, anche in casi di palese violazione della legge, è sempre cauto, ha bisogno di tempo e di consensi diversi. Così vanno le cose.
L’abusivismo si è diffuso, è diventato invadente dopo anni e anni di lassismo, buonismo e malinteso solidarismo.

Anche l’eccessiva tolleranza dimostrata nei confronti dei «vu cumprà» ha favorito l’allentamento delle regole. Bisogna riconquistare la normalità e la legalità, ma è dubbio che si possa recuperare il tempo perduto mandando al rogo Chirivì. Sarebbe semplice, ma forse troppo.

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