Che cosa vuole? Solo la Luna

Oggi il lavoro esige più flessibilità, il fenomeno è globale e indietro non si torna. Il posto fisso garantito e immutabile come in passato è una pretesa impossibile. Irlanda e Spagna, modelli quando le cose andavano bene, poi sono state travolte

Che cosa vuole? Solo la Luna

Ci sono manifestazioni che han­no senso ma ce ne sono molte altre organizzate per chiedere l’impossibi­le. Se l’oggetto principale di rivendi­cazione di una piazza è chiaramente illogico, antistorico o in generale contrastante con la real­tà dei fatti, si tratta purtroppo di uno spreco di tempo, ener­gie e risorse che rischia di di­luire al proprio interno, inva­lidandole, anche istanze legit­time pur meritevoli di atten­zione. Su queste pagine ab­biamo cr­iticato alcune richie­ste presentate da Cisl e Uil nel­la loro manifestazione di setti­mana scorsa ma si trattava di salutare confronto di opinio­ni, anzi, confermava implici­tamente la riuscita della pro­testa: evidenziare un proble­ma potenzialmente risolvibi­le perché ne si potesse discu­tere e lo si mettesse in agen­da. Nel caso del corteo Fiom a Roma invece, si ha la sensa­zione che i manifestanti pro­pongano richieste analoghe a quella di voler ordinare al tempo di fermarsi perché non si vuole invecchiare e morire, ai fiumi di tornare ver­so la sorgente perché inqui­nati o ai cinesi di riprendere a coltivare il riso lasciando a lo­ro l’esclusiva delle fabbriche. Si parte sempre dal presuppo­sto che un disagio ci sia e che quindi ogni protesta vada ascoltata con rispetto, spe­cialmente se riguarda argo­menti fondamentali come il lavoro e la dignità. Poche co­se sono altrettanto distrutti­ve per la vita famigliare come la perdita di un lavoro che si supponeva «sicuro», detto questo occorre essere prag­matici e vedere fin dove si può fare qualcosa e dove inve­ce passa il limite della richie­sta della luna. Pur correndo il rischio di semplificare trop­po, l’impressione è che la ri­vendicazione della Fiom sia per un lavoro qui, adesso, ga­rantito, nello stesso luogo, im­mutabile ed identico al passa­to per modalità e salario, en­trando così nel mondo delle pretese impossibili (e quindi delle manifestazioni inutili). Difficile dire che si protesta perché c’è qualcosa di specifi­co in Italia che va peggio de­gli altri Paesi occidentali: il nostro tessuto sociale ha ret­to molto bene l’impatto con la devastante onda della crisi e della recessione mondiale. I tre nostri principali ammor­­tizzatori sociali (la cassa inte­grazione, la famiglia e il ri­sparmio) hanno consentito di limitare i danni che, ogget­tivamente, era impensabile sperare di poter evitare del tutto. Il governo ha fatto la sua parte iniettando grandi ci­fre nel primo (la Cig) ed evi­tando azzardi che in caso di attacco ai conti pubblici tipo Grecia o Irlanda avrebbero messo a rischio la stabilità de­gli altri due, dato che sarebbe­ro stati minacciati i titoli di Stato e le pensioni; il resto del merito va alla capacità di adattamento degli italiani e al genio di molti piccoli e me­d­i imprenditori che hanno sa­puto ben manovrare in ac­que turbolente. Il risultato è che abbiamo affrontato una crisi mondiale del debito par­tendo dalla peggiore posizio­ne possibile (dato che il peso e la dimensione del nostro de­bito pubblico­erano noti a tut­ti e ci rendeva una vittima de­signata) ma ad esserne travol­ti sono stati a sorpresa altri, come quegli irlandesi o que­gli spagnoli che erano presi a modello quando le cose anda­vano bene. Stante quindi che di danni ce ne sono stati ma è difficilmente contestabile che ci sia andata tutto som­mato bene e che, pian piano, le cose si stanno rimettendo in moto (come dimostrano i dati crescenti della produzio­ne industriale), dov’è quindi il punto della protesta? Scio­perarono gli addetti alle mi­niere ormai diventate impro­duttive, scioperarono i lavora­tori delle filande, scioperaro­no persino i non certo poveri operatori di Borsa quando ven­ne introdotto il mercato tele­matico. Risultati? Nessuno. Se il mondo cambia bisogna ave­re il coraggio di abbandonare le proprie certezze e di essere flessibili, perché certi movi­menti globali non si possono fermare né governare più di tanto. Anche se le tasse per i la­vo­ratori di alcuni settori venis­sero per assurdo azzerate (e non si può dato che l’Europa lo impedirebbe), cosa sceglie­rebbe un imprenditore? Apri­re una fabbrica dove gli operai costano quattrocento euro al mese e sono sempre al lavoro oppure aprirla dove costano milletrecento e sono spesso in piazza? Per i dazi è tardi e in ogni caso avrebbero solo ri­mandato il problema.

Sperare che paghi lo Stato per lavori fuori mercato è ormai utopia. Il lavoro però non manca, ba­sta essere consci che non sarà più quello di prima e dove era prima. Prendere atto della real­tà potrebbe portare più risulta­ti di slogan e fischietti.

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