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MA CHE DIAVOLO Sotto le vesti del Male

MA CHE DIAVOLO Sotto le vesti del Male

Sembianze infinite, origini leggendarie, una storia fatta di inossidabile vitalità, qualità e attributi da riempire intere enciclopedie del male: la carta d’identità del diavolo conosce fattezze mutevoli, propone incerte generalità e un repertorio di aneddoti che non teme confronti con alcun’altra creatura.
Nato miticamente in qualità di angelo ribelle, come attestavano i versi infernali danteschi e quelli del Paradiso perduto di Milton, oppure sotto la parvenza di spiriti, cose e anime di morti, come credevano gli uomini primitivi del periodo neolitico? Lo spirito perfido dovrebbe celebrare la sua data di nascita tra le religioni storiche, come quella egiziana (che annoverava, accanto ai benefici di Ammone, Osiride e Iside, le impurità e le menzogne del serpente Apep o del formidabile Set), indiana (dove Veruna se la vedeva con l’opposto Vritra) o tra i mostri contrari agli dei dell’Olimpo, come Tifone, Medusa, Gerione e tutta la ricchissima galleria di demoni, lemuri e larve che turbavano i sonni di greci e romani? Una cosa è certa: se sul biglietto da visita del diavolo troviamo il nome Satana, lo zampino è tutto di giudaismo e cristianesimo, e soprattutto del secondo che ai suoi malefici attribuisce la tentazione del peccato e i mali di ogni tempo.
Specie nel Medio Evo, Satana è ovunque, forte di una potenza tentatrice che si manifesta nelle forme più sottili e crudeli. L’eremita estatico lo vede, intruppato in eserciti spaventosi, trasvolare nei corpi di mostri inquietanti; il demone sibila nell’aria, sinistro annunciatore della nascita dell’Anticristo e dell’imminente Apocalisse; si nasconde all’ombra delle cattedrali gotiche, cresce in castelli isolati o nel silenzio dei chiostri, si insinua nel recondito laboratorio dell’alchimista o negli anfratti dei boschi, dove il mago ordisce le sue malie. Satana insomma diventa «l’eroe di una leggenda senza fine», protagonista temutissimo di avvampate predicazioni, strumento pauroso agitato dalla Chiesa più di roghi e inquisizioni.
Alla storia di questo onnipresente interprete del nostro più atavico immaginario, è dedicato un libro curioso e imperdibile: Il diavolo (ora ripubblicato da Fratelli Frilli Editori, pagg. 314, euro 16,50). Lo scrisse alla fine dell’Ottocento Arturo Graf, poeta e critico torinese di origine tedesca, autore tra l’altro di quell’opera fondamentale per la conoscenza del periodo che fu Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo. Particolarmente significativa è la rassegna delle caratteristiche, per così dire, fisiche dei diavoli come persone: se per alcuni, san Gregorio Magno in testa, essi erano del tutto incorporei, per la maggior parte dei Padri e dei Dottori della Chiesa avevano carne e ossa, esattamente come il Lucifero cui Dante, fra i ghiacci di Cocito, si aggrappa come a una roccia. Deformi e ripugnanti, smisurati giganti oppure nudi fanciulli, essi assumevano talvolta forme di vari animali, dalla serpe allo scorpione, dal leone alla mosca alla lumaca. Non contenti di questa zoologia diabolica, venivano raffigurati non di rado nelle cose inanimate: pietre, bicchieri di vino tentatore, tronchi d’albero, oro o grappoli d’uva.
Per ottenere il suo scopo, Satana ricorreva, come testimoniano le cronache medievali, ai più ingannevoli travestimenti, apparendo in figura di leggiadra fanciulla o di nobile matrona e vincendo così la resistenza anche dei santi. Per mettere in atto le sue lusinghe tentatrici, inventava beffe, soprusi, truffe e angherie, spesso perpetrate ai danni dei moribondi, ai quali veniva riservato l’ultimo e più temibile assalto. Secondo un’antica credenza riportata da Graf, anche il Redentore sul Calvario vide posarsi il terribile nemico, sotto forma di uccello di rapina, su uno dei bracci della croce. Ma anche gli uomini comuni erano assediati alla fine della vita da seducenti tentazioni, al punto che, a metà del XVI secolo, Domenico Caprinica, vescovo di Fermo, scrisse una Ars moriendi con cui ammaestrare alla buona e santa morte.
Specie nel Medioevo, gli istrioni, i giullari e i saltimbanchi lavoravano per Satana e le danze erano una sua creazione. Per non dire della magia, che continuò ad affascinare dentro e oltre il Rinascimento. Alle leggi ecclesiastiche e civili non rimaneva che la più intransigente soluzione della repressione e, in un clima montante di sospetto, ogni uomo rischiava di essere identificato come segreto cultore dell’arte diabolica. Aristocrate, Ippocrate, Virgilio vennero ritenuti stregoni, e così Petrarca, fino ad arrivare ad Alessandro Tassoni, l’autore de La secchia rapita, che subì un processo per il solo fatto di custodire a casa una di quelle figurine di smalto dalla forma di diavoletto che divertivano i bambini e che si soleva chiamare «diavoli di Cartesio».
Eppure, per Satana non erano solo rose e fiori. L’indegno nemico dei cristiani temeva il segno della croce, il nome stesso di Dio, di Gesù e della vergine Maria, l’acqua benedetta, che gli cuoceva le cervici più che la pece bollente delle caldaie infernali, le campane, alcune gemme, che lo costringevano alla fuga; l’aglio e il sale lo atterrivano e il gallo, col suo canto mattutino, lo forzava a nascondersi. Quando poi pareva vittorioso, giungeva l’opera dell’esorcista, le cui operazioni potevano essere lunghe e laboriose oppure semplici e brevi. Talvolta gli indemoniati si liberavano toccando le reliquie di un santo famoso o bevendo l’acqua usata per lavare gli zoccoli di sant’Elia Speleota. Né mancavano indecorose ritirate di diavoli esorcizzati, come accadde - racconta Graf - a uno, scacciato da sant’Afro, che uscì dal corpo del malcapitato «con grande flusso di ventre»: «degna fuga di un così laido nemico».
Il terrifico Satana, infatti, quando è vinto, più che spaventare, fa ridere, come ci invitano a fare antiche credenze e fiabe popolari, che lo designavano con nomi comici o benevoli, da Fistolo a Farfarello, da Tentennino a Culicchia. E che dire degli abitanti della quinta bolgia dell’ottavo cerchio infernale, che Dante chiama Malacoda, Cagnazzo, Scarmigliane, Libicocco, Draghignazzo e via dicendo? Canaglie triviali e poco più, che come i monelli stringono la lingua coi denti per fare cenno al loro capo, che gli risponde facendo «trombetta» di quello che sappiamo. E - incredibile a dirsi - pure nello spaventatissimo Medioevo, c’era chi osava dipingere il diavolo nient’affatto brutto: una Bibbia latina del IX o X secolo lo rappresenta ancora con angeliche ali e col nimbo che gli cerchia il capo; un’epopea francese del 1100 lo chiama «bello»; all’inizio del ’400, il vescovo di Foligno, Federigo Frezzi, in un suo poema descrive una creatura quasi meravigliosa: «Egli era grande, bello, e sì benigno/ Avea l’aspetto, di tanta maestà,/ Che d’ogni riverenza parea degno./ E tre belle corone avea in testa/ Lieta la faccia e ridenti le ciglia/ E con lo scettro in man di gran podestà».

Ce n’è abbastanza, insomma, per dare ragione al proverbio e convincersi che in fondo «il diavolo non è poi così brutto come lo si dipinge».

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