Dopo trent'anni in fabbrica, non mi posso certo esimere ora dall'aderire al movimento di lotta a favore della cultura, testé intrapreso dalle masse dei cineasti italiani. Sto con voi, compagni, non sono un crumiro: ditemi dove e quando, e vengo anche io a fare casino.
Essendo però pure autore de Il Fasciocomunista (Mondadori), libro da cui è tratto il film Mio fratello è figlio unico, non posso però non plaudire al recente David di Donatello - prima e grande iniziativa di lotta di questo movimento - che ha giustamente premiato il suddetto film con Elio Germano, Angela Finocchiaro, Mirco Garrone e Bruno Pupparo. Tutti bravissimi. Strameritati.
Quando però vedo che anche Luchetti, Rulli e Petraglia - che per inciso sembrano far parte di prestigio del comitato di lotta delle masse cinematografare - sono stati premiati per la miglior sceneggiatura, be', allora il discorso cambia: quelli il mio libro lo hanno scannato.
Dice: «Vabbè, ma s'è sempre saputo che gli autori non sono mai contenti delle riduzioni cinematografiche dei loro libri». Fermi tutti: non è questo il mio caso. Io lo so benissimo che per leggere un libro ci vogliono almeno otto ore e se invece devi farne un film di un'ora e mezza è evidente che devi pure togliere un sacco di roba. Non è più la stessa storia. È un'altra storia. Questi però si sono messi a lavorare sulla roba mia senza farmi nemmeno uno straccio di telefonata e, per comportamenti così, in fabbrica altro che dirigente sindacale e di lotta, in fabbrica la gente ti schiva pure in sala mensa: «Meglio il capo del personale».
E Tullio Kezich inoltre, mica io - dice: «Vabbè, ma chi cazz'è Tullio Kezich?»; ah, questo è un altro discorso - che sostiene che il film non sia «riuscito» (Corriere della Sera, 20/4/07). Lui non sostiene che il film sia brutto: il film è bello, solo che non è «riuscito» perché tutto ciò che di bello promette all'inizio - nel primo tempo - non lo mantiene poi e si sfilaccia nella seconda parte. E questo è, peraltro, il giudizio unanime da me ascoltato nelle sale, dal pubblico che usciva: «Bellissimo primo tempo, grandissimo Germano, ma il secondo tempo si perde».
Ora però si dà il caso che proprio il primo tempo sia quello più fedele al libro mentre è il secondo tempo che più se ne discosta, avendolo quei Tre abbandonato per inventarsi altri fili, a cui poi sono rimasti inevitabilmente appesi non riuscendo in alcun modo a riannodarli. La storia ha così perso di unità, logica, appeal e coerenza, facendo saltar fuori perfino un «figlio» che c'entrava come i cavoli a merenda. La storia mia non gli era più piaciuta evidentemente - era politicamente scorretta forse, o esteticamente «sorda» alle orecchie loro - ma non essendo capaci di crearne unaltra equipollente, hanno preso le fotocopie vecchie e hanno fatto La meglio gioventù 2: «Squadra che vince non si cambia».
Ora io non dico che il film sia brutto. E' un bel film. Ma è un bel film grazie agli attori (tutti bravissimi: da Germano a Populizio, Bonaiuto, Finocchiaro, Fleury, Zingaretti, ma anche Scamarcio e gli altri) e grazie alla storia di base dei due fratelli, uno fascista e l'altro comunista. È questa storia che agisce sul pubblico e che, alla fine, si rivela più forte di tutti i danni che, pure, Rulli-Luchetti-Petraglia hanno potuto fare. Il film è bello nonostante loro.
Dice: «Ma hanno vinto il David di Donatello». Eh, figùrati gli altri. Quando Riccardo Tozzi, il padrone di Cattleya, facendomi vedere il copione disse: «Ho preso i meglio sceneggiatori sul mercato», gli risposi subito: «Mo' capisco la crisi del cinema italiano». La crisi è d'autore: crisi di scrittura. Questi non lo sanno più scrivere il cinema. Io sto con tutti i movimenti di lotta di questo mondo - mi chiamassero e vado - ma il problema non è solo di soldi. Se tu non sei capace di creatività, se scrivi e riscrivi sempre le stesse storie e magari le scrivi pure male senza riuscire a farle stare in piedi, ti possono dare pure tutti i soldi che vuoi, ma sono soldi buttati. Ci vogliono le idee. E questi non ne hanno o almeno non ne hanno più, restandogli però la somma presunzione di andare a rovinare le idee degli altri. Dio ne scampi e liberi da Rulli e Petraglia, ci mettessero chi gli pare negli enti di gestione o commissioni varie, ma non ci mettessero quei due o Luchetti.
* autore del libro «Il fasciocomunista» da cui è stato tratto il film «Mio fratello è figlio unico»
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