Il rito del würstel e crauti... Quanto tempo è passato? L’ultima volta, eravamo nel 10 o nell’11 d.S. (dopo Sacchi) e Kakà, allora, sgambettava felice a San Paolo su qualche campetto spelacchiato. Noi, invece, avevamo già la pancia piena di campionati e coppe assortite. Ricordi, Luca? «Come no? Ma adesso lasciami stare. Ho finito le lacrime». Luca è uno dei nostri: la serie B, le umiliazioni, le speranze tradite, poi Berlusconi, sul finire dei tribolatissimi anni Ottanta («non ho capito bene chi è»), Righetto («quello del Parma? Boh?»), Maradona che piange, Barcellona... E ora non sa darsi pace. Dentro, urlano già a squarciacuore il nome di Riccardino, proprio mentre Luca dà il primo morso al panino gommoso. «È la fine di qualcosa. Non so ancora bene di che cosa... però è la fine».
Il rito del würstel e crauti adesso ha un sapore di tanta rabbia e di poco orgoglio, per Luca. Non gli stanno vendendo il miglior giocatore: gli stanno sgonfiando l’illusione di essere diverso dagli altri. «Non eravamo quelli che non vendono i loro gioielli?». «Ma il mercato, la congiuntura. Sono tanti soldi, un’infinità...». Al solito chiosco, ieri sera, fuori dal Tempio (lo si chiamava così), per una strana combinazione ricompare il Loris, un altro del gruppo storico. Si è messo in politica. Peggio per lui. E sta nel partito realista. «Più soldi per lui e più soldi per noi. Quindi l’affare si farà».
Mancano quaranta minuti. Entriamo. «Non-si-vende-Kakà/ Non-si-vende-Kakà». E lui non fa una piega, nel riscaldamento. Sigaretta e grappino. Altro rito, altro regalo alla memoria. Ci sarebbe anche una partita da vedere, e possibilmente da vincere. Secondo molti, un dettaglio trascurabile. Non secondo questi tre, moglie, marito e bimbetto sui sette anni. «Ormai hanno già fatto tutto», dice lei, e lui annuisce con il testone. «Ma Kakà gioca?», chiede il piccolo. «Sì, gioca. E forse è l’ultima partita nel Milan», rispondo, non richiesto. Il papà mi guarda male. La signora si gira dall’altra parte.
Le formazioni. Fischi di prammatica a Gilardino, il tremebondo Gilardino. «Non-si-vende-Kakà/ Non-si-vende-Kakà», l’invocazione monta e poi si trasforma in un invito “forte” a Cravatta Gialla Galliani. Anche questa è di prammatica. Nella fila sopra la nostra uno sbarbato paonazzo ha messo la maglia numero 22 sopra il cappotto e grida cose che per fortuna il bimbetto di prima non può ancora capire. Il primo tempo scivola via intirizzito come un passante frettoloso. La precisa stoccata di Pato non basta a scaldarlo. La Fiorentina è acerba. E il Milan? «Vedi, non stanno giocando per lui», commenta acido il Loris. Luca tace. Rispettiamo il suo composto dolore. Poi, verso il decimo del secondo tempo, accade l’imponderabile. Luca si alza e fa per andarsene, senza dire una parola. Quella è la sua protesta silenziosa. «Luca. Fermati un attimo, ascolta...». Lasciarlo andar via così? No, lo seguiamo.
«Allora?». «Allora cosa?». «Non ti senti bene?». «No, non mi sento bene». «Su, non prenderla così...». Squilla il suo telefono, proprio mentre entriamo in un bar, il solito bar del dopopartita. È Carlotta, altra componente del gruppo, tanti, troppi anni fa. Me la passa. «Lo sapevo – dice – che il Luca non avrebbe retto i novanta minuti. Stiamo vincendo, almeno?». «Sì, uno a zero, Pato». «Ripassamelo». Ordino un’altra grappa con il Loris. Dopo cinque minuti si torna a parlare di Milan. E a noi si unisce la barista che ha finito il suo turno. Ha una sciarpa rossonera al collo.
«Per me è giusto così – mormora la barista -, è d’accordo anche il Berlusca...».
«Ragazzi – interviene il Luca redivivo -, sia chiaro che io allo stadio non vengo più».
«Adesso non esageriamo», fa il Loris.
«Non esagero».
Alla fine, lo accompagniamo tutti e tre a casa, anche la barista Lisa. Senza sapere il risultato finale della partita.
Daniele Abbiati
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