Che sorpresa, ora Hollywood scopre un arabo antiterrorista

La pellicola con Jamie Foxx, a novembre in Italia, è in vetta al box office Usa e ha dato grande popolarità all’attore Ahsraf Barhom

da Roma

Ma è proprio vero, come racconta il Corriere della Sera in una corrispondenza da Washington, che per gli attori arabi oggi a Hollywood ci sono solo ruoli da terrorista? Certo, film e telefilm, da 24 a Senza traccia, passando per Ncsi, rigurgitano di mediorientali ambigui, sfuggenti, volentieri pronti a farsi scoppiare; più raramente, invece, vittime di pregiudizi odiosi e razzisti, smentiti da opere di bene. E però, benché il giornalista Paolo Valentino riveli la storia paradossale di un attore egiziano che s’è dovuto fingere di origini italiane (?) per accedere a un ruolo normale, non da guerrigliero di Al Qaida, qualcosa sta cambiando anche da quelle parti.
Vedere per credere The Kingdom di Peter Berg, grossa produzione Universal ai primi posti al box office americano con i suoi trentun milioni di dollari in dieci giorni, starring due divi come James Foxx (il tassista di Collateral) e Jennifer Garner (la spia di Alias). Da noi uscirà a novembre. Una storia di vendetta ambientata a Riad, un filmone d’azione dove molto si spara e si ammazza al grido reciproco «Li uccideremo tutti», con un quintetto di agenti Fbi spedito in Arabia Saudita per fare luce, con tutte le avvertenze del caso (gli sceicchi di quel Paese sono amici da trattare con i guanti), su un massacro di cittadini americani inermi. Secondo copione, i cinque super esperti, una specie di «scientifica» del Federal Bureau, vengono subito messi nell’impossibilità di indagare: prove incasinate, intralci burocratici, la stessa Ambasciata Usa li rispedirebbe volentieri a casa. Ma il grintoso Fleury-Foxx, per giunta nero, trova inaspettato ascolto in un ufficiale della polizia locale, il colonnello Faris Al-Ghazi, che si trasforma nel più prezioso degli alleati. Barba incolta e viso scavato, buon padre di famiglia come l’omologo americano, l’arabo si convince che è in atto un depistaggio, quindi, fedele al Regno saudita, si unisce al gruppo, fino alle estreme conseguenze.
L’attore si chiama Ashraf Barhom, arabo-israeliano della Galilea. Magari qualcuno lo ricorderà in La sposa siriana o in Paradise Now, ma di sicuro è stato The Kingdom a dargli in un lampo la fama internazionale. D’accordo, si dirà: troppo facile simpatizzare col musulmano buono e onesto, in divisa, che non sgozza e non indossa cinture esplosive dopo essersi fatto riprendere da una telecamera. Eppure all’inizio, in sceneggiatura, il ruolo di Barhom era più ristretto, d’appoggio, solo strada facendo gli autori hanno capito, fors’anche anche per ragioni di equilibrio politico-ideologico, che il colonnello Al-Ghazi avrebbe incontrato la simpatia del pubblico. Del resto, proprio alla Festa di Roma si vedrà Rendition di Gavin Hood, dove Omar Metwally, già feroce terrorista palestinese in Munich di Spielberg e amabile paziente in Grey’s Anatomy, diventa un innocente ingegnere arabo, sposato con un’americana, fatto rapire dalla Cia in combutta coi servizi segreti egiziani alla maniera dell’imam Abu Omar.
Inutile dire che, dopo The Kingdom, Ashraf Barhom sta assaporando un suo momento d’oro. Diplomaticamente, in un’intervista ha spiegato: «Entrambi i personaggi, l’americano in missione e il mio colonnello, hanno a cuore la difesa del proprio Paese. All’inizio non sanno comunicare, non per un problema di lingua, ma a causa delle culture diverse, ciascuno non si fida dell’altro. Poi, conoscendosi, capiscono che devono rispettarsi se vogliono risolvere il caso». Vista l’intesa tra i due attori, il regista Peter Berg avrebbe accolto consigli e idee sul set, improvvisando scene e dialoghi non previsti. Nondimeno, Barhom riconosce che molti film d’azione risolvono la questione con l’accetta, dipingendo tutti gli arabi come cattivi, gente pronta a uccidere per fanatismo religioso: «Invece le cose sono più complesse, devi costruire una comunicazione tra le due culture, cercare di capire che cosa si nasconde dietro i personaggi o gli eventi».


Poi, s’intende, come dare torto all’egiziano Sayed Badreya, vent’anni d’onorata carriera a Hollywood in parti da dirottatore, spia, kamikaze e via ammazzando? Ha rivelato: «All’inizio, nel 1986, non trovavo una parte. Ero troppo carino. È bastato ingrassare un po’ e farmi crescere la barba per ricevere una pioggia di ingaggi».

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