«Che tristezza chi specula sull’impegno civile»

nostro inviato a Vicenza

A un certo punto della nostra chiacchierata, Vitaliano Trevisan dice «ma io sono un fan degli esseri umani». Ha appena finito di demolire, in serie, Roberto Saviano, Matteo Garrone, Toni Servillo, i giornali e la bolla della comunicazione, Vicenza, gran parte del mondo del teatro e dell’editoria, gli amministratori pubblici, gli architetti e i geometri, Marco Paolini, la Chiesa e i politici. E dunque quando gli chiedo se in questo mare di macerie ci sia un’isola da salvare, lui mi guarda con i suoi occhi da pastore siberiano che dominano un volto dai lineamenti duri, più slavi che latini, e si spiega: «Io ho simpatia per gli esseri umani... Come posso non averne sapendo che siamo tutti accomunati dallo stesso tragico destino di morte?».
Niente mediazioni, niente consolazioni, niente diplomazie, zero compromessi. Passione, quella sì. E tanta libertà di critica, anarchica, dura, indifferente alle conseguenze. Cinquant’anni, scrittore, drammaturgo, attore per il cinema (Primo amore di Matteo Garrone, tra gli altri) e per la televisione (la bellissima fiction su Basaglia e Ris. Delitti imperfetti), seduto al Bar degli Artisti nel centro storico della sua Vicenza - «c’è il bar, ma non ci sono gli artisti» - Trevisan anticipa le domande e si butta a capofitto, smentendo l’idea che potrebbe derivare dai suoi racconti pieni di ossessioni, solitudini, insofferenze, dell’autore taciturno al quale bisogna tirare fuori le parole una alla volta. Lei scrive e parla molto di morte, però si chiama Vitaliano, bella contraddizione... «È un nome che deriva dal greco “colui che dà la vita” e mia madre me lo diede perché si era appassionata ad un personaggio di un film sull’antica Roma che si chiamava così».
Da poco è uscito il suo Tristissimi giardini (Laterza, pagg. 140, euro 10), sorta di viaggio esistenziale tra la periferia vicentina dell’industrializzazione calata sull’humus contadino e la Roma della cultura, le due sponde entrambi respingenti, tra le quali l’autore pendola, armato del gusto dell’invettiva e dell’autoironia. Per non prendersi troppo sul serio, scrive Trevisan, perché «c’è il rischio di appesantirsi, di interpretare un ruolo, di diventare quel ruolo. Essere formattato!, niente mi fa più orrore». Come non approvare.
Però, le contraddizioni allignano: gli esseri umani le saranno simpatici, ma i suoi scritti grondano misantropia... «La mia è una condizione più che una scelta. È solitudine, non isolamento. Volontà d’indipendenza più che geloso individualismo. Scrivo per il teatro e il teatro è lavoro di gruppo. Ma in questo pezzo di Veneto, le teste buone sono sempre rimaste isolate più che altrove. Basta pensare a Piovene e Parise, per dire due autori che mi sono cari».
Volontà d’indipendenza... «Di evadere dalle logiche degli schieramenti. Di qua sei con Berlusconi di là stai con gli anti. No. Ero così anche prima. Se non ti mettevi con la Dc ed entravi nei suoi circoli voleva dire che eri comunista. Ancora no. Io non amo la narrazione come comunicazione e mi rifiuto di dividere la lavagna in buoni e cattivi. Piuttosto lavoro di meno, lascio cadere le proposte di collaborazione che arrivano dai giornali appena capisco che vorrebbero incasellarmi. Per il teatro, più mi allontano da Vicenza, vado in provincia o in altre città - Milano, Roma, Torino - meglio vengo accolto. Però, ora con l’arrivo di Alessandro Gassman alla direzione artistica dello Stabile del Veneto e di Flavio Albanese, l’ex direttore di Domus, alla presidenza del Comunale di Vicenza, alcune cose cominciano a cambiare. Se scegli di stare fuori dalle consorterie devi aspettare che qualcuno si accorga di te e ti consideri una risorsa».
Succede? «Qualche volta sì. È successo con Roberto Herlitzka che ha portato in scena il mio RH. È successo con La bancarotta. Ossia il Mercante fallito, un testo di Goldoni che sto riadattando per lo Stabile del Veneto e che mi sembra molto attuale, sul fallimento di un gruppo di commercianti le cui conseguenze ricadono sulla collettività. Ed è successo anche per Una notte in Tunisia, protagonista un grande politico italiano in esilio interpretato da Alessandro Haber per la regia di Andrée Ruth Shammah». Un politico italiano in esilio in Tunisia... «Tocca agli storici fare la storia di Tangentopoli. Ma ci vorranno parecchi anni. Intanto, è una realtà che la soluzione politica al problema del finanziamento dei partiti auspicata da Craxi non sia ancora stata trovata. Il mio è un testo teatrale e Craxi è un grande personaggio tragico, drammaturgicamente interessante. È diventato il capro espiatorio di un metodo che ha attraversato tutta la politica italiana soprattutto a causa del suo temperamento. Si è messo da solo in quella situazione rifiutando i compromessi che gli erano stati offerti e che altri, invece, hanno accettato. Perciò parlo di esilio e non di latitanza». Sarà un polverone... «C’è attesa, la Shammah lo definisce un lavoro scabroso. Per adesso è stato prenotato dal Franco Parenti di Milano, poi andrà al Quirino di Roma. Ma la tournée ancora non c’è... Aspettano di vedere se contiene una riabilitazione di Craxi oppure no».
Geometra, muratore, corriere, portiere di notte: per una quindicina d’anni lavoratore dipendente cambiando continuamente padrone, Trevisan è rinato dopo i 33, «quando ho comprato un computer visto che con la macchina per scrivere non riuscivo a scrivere». Per un bel po’ i lavori pratici, manuali, e la passione della scrittura hanno convissuto, contendendosi le energie fisiche e nervose, il tempo, le notti. Trevisan, rughe da muratore e occhi da artista, è uomo di contraddizioni e contrasti forti. Nel 2002 la pubblicazione de I quindicimila passi da Einaudi, il suo libro più fortunato che narra di Thomas e della sua mente assediata, ossessionata dal contare i passi dei lunghi tragitti che percorre a piedi tutti i giorni, ha inaugurato una nuova vita, solo letteraria e artistica.
Anche in lei sta crescendo la tentazione dell’impegno civile... «Per la pièce su Craxi? No, è solo teatro, nient’altro. Voglio essere giudicato per la qualità dei miei testi. E vorrei che ci fosse la libertà di farlo con tutti. Invece, ci sono quelli che diventano letterariamente intoccabili perché circondati dall’alone dell’impegno civile. Prenda Saviano: se qualcuno osa dire che Gomorra non è scritto bene passa per filocamorrista. E Paolini? Qualsiasi cosa faccia è un capolavoro. Invece ha banalizzato Il sergente nella neve di Rigoni Stern. Possiamo dirlo? Il brand dell’impegno civile è diventato un valore commerciale: fa vendere i libri, staccare i biglietti a teatro, riempire le sale, scalare le classifiche. Il lettore e lo spettatore pagano dieci/quindici euro e poi si sentono con la coscienza a posto. Per me chi fa il proprio dovere ogni giorno, soprattutto se rifiuta logiche di appartenenza, è altrettanto civilmente impegnato. Qui, ormai, abbiamo impastato nello stesso prodotto letteratura e comunicazione, arte e cause sociali. Invece, sempre per stare all’esempio di Saviano, credo che anche grazie al successo ottenuto - e il successo è sempre pericoloso - appartenga alla grande bolla mediatica più che alla letteratura, alla militanza sociale più che all’arte».
Critico con Saviano e Paolini. Spietato con Matteo Garrone e Toni Servillo, con i quali ha pure lavorato... «E sono state esperienze complicate. Se io presto un’opera mi aspetto di essere pagato, soprattutto se si tratta di lavori svolti su commissione. Invece, c’è una zona grigia di non detto per cui intanto lavori, poi si vedrà. E quando vai a vedere scopri che il compenso è un optional. Sarà perché sono stato a lungo un dipendente, ma mi aspetto che il mio contributo a una sceneggiatura o a una scenografia teatrale venga riconosciuto. Altrimenti è un guaio. Così, mi sono fatto l’idea che esista un intreccio strano, un meccanismo ambiguo di cooptazione e promozione negli ambienti giusti. È un sistema, un mercato alternativo...». Si spieghi. «Punto primo: io non posso lavorare gratis perché non sono nelle condizioni per farlo. Altri, invece, evidentemente possono farlo. Punto secondo: se il compenso in denaro è un optional, significa che ci sono altri modi per pagare la prestazione. Il coinvolgimento nel film successivo tipo “Dai, ti faccio lavorare ancora...”, l’introduzione in un ambiente che conta, la promozione presso un collega eccetera. Infine, terzo punto: così si definiscono percorsi professionali, riconoscibili nei film e nelle produzioni di tanti registi e attori».
Demolisce tutto o quasi. Cosa salva? «Non demolisco, critico. Se avessi voluto distruggere avrei continuato a fare il geometra, per demolire costruendo.

Invece, il diritto di critica ci aiuta a pensare, discutere, migliorare. Salvo gli esseri umani, con il loro destino di morte. E salvo la lingua, lo scrivere. Per il cinema o per il teatro o dove posso. In fondo, la mia unica ambizione è scrivere bene».

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