Cronache

Il team della signora L'Oréal: "Scelgo gli onesti e i generosi"

A soli 41 anni è responsabile per l'Italia della multinazionale del beauty: «Sono caratteristiche che fanno la differenza Le quote rosa? Utili ma devono essere a termine, più di tutto contano le capacità»

Il team della signora L'Oréal: "Scelgo gli onesti e i generosi"

Cristina Scocchia è nel suo ufficio, nella sede milanese di L'Oréal. Ci sono una grande orchidea bianca sulla scrivania e uno scaffale con cremine, rossetti e shampoo. È a un piano basso, anche se di solito quelli col suo ruolo stanno in alto. Quarantuno anni, di Sanremo, è l'amministratore delegato della multinazionale nel nostro Paese dal gennaio del 2014. Giovane e donna. Un'eccezione.

Come ha iniziato?

«Ho frequentato il Liceo scientifico a Sanremo e poi sono venuta a Milano, alla Bocconi. La Procter & Gamble fece una presentazione e io rimasi affascinata da questa impresa internazionale, dove contava così tanto il merito. Mandai il mio primo curriculum».

Come andò?

«Mi presero per uno stage. Poi, dopo tre mesi, mi fecero un contratto, anche se non ero ancora laureata. Il fatto è che lavoravo a Roma, e l'università era a Milano. Alla fine mi sono laureata col massimo dei voti. Dopo mi hanno promosso e mandato a Ginevra, al quartier generale. Il mio sogno. Era il luglio del 2000. Dopo 14 anni di lavoro in mezzo mondo, ho incontrato L'Oréal...».

È sempre stata la prima della classe?

«No, mi piaceva studiare ma non ero secchiona. Ho sempre amato le materie scientifiche, matematica e fisica».

Ma che cosa sognava di fare?

«Lavorare in un'azienda e diventare un manager. Infatti al primo colloquio in Procter & Gamble, quando mi chiesero: “Come ti vedi fra 15 anni?”, io da pischella risposi: “A fare l'Ad”. Era il mio sogno professionale».

Ci ha preso...

«Ho sbagliato di sei mesi. Ma non era arroganza, era la sfrontatezza, il coraggio dei vent'anni. Sapevo anche che sarebbe stato molto difficile».

E quando l'hanno nominata ha mai pensato di non farcela?

«No. Credevo che, con il gruppo eccezionale che ho trovato, potessi raggiungere l'obiettivo di un turnaround per questa azienda».

I conti andavano male?

«Diciamo che, come in tutto il Paese, anche in questa filiale negli ultimi anni c'era stata una contrazione del fatturato e degli utili. Dovevamo riportare il segno positivo. Ce l'abbiamo fatta».

Nel frattempo si è sposata e ha fatto un figlio.

«Eh sì, ero tranquilla a Ginevra quando andai a fare un weekend da single a Parigi con mia cugina, che lavorava a Eindhoven, in Olanda. Portò anche un suo amico, pure lui single, Enrico: fu un colpo di fulmine, dopo tre mesi mi chiese di sposarlo».

Si è sposata dopo tre mesi?

«No, prima lui ha cercato lavoro a Ginevra... Fa il cardiochirurgo. Parliamo di cose molto diverse, a casa: serate intere a discutere di bypass e valvole, e altre in cui lui subisce discorsi sul mio lavoro. E dopo cinque anni insieme è arrivato Riccardo, che ora ha sei anni».

Si è trasferito qui con lei?

«Sì, non mi sarei mai spostata senza di lui. Sono una mamma molto coccolona. Per due anni con mio marito ci siamo visti nel weekend».

Ha funzionato?

«Mi spaventava, ma l'abbiamo preso come un impegno: siamo stati teutonici, non abbiamo perso un weekend. E ora lui inizia un nuovo lavoro a Lugano, come caposervizio di cardiochirurgia: questa distanza sarà una passeggiata».

Suo figlio vuole fare il manager o il cardiochirurgo?

«Per ora vuole fare lo scienziato del Cern... Ha appena finito la prima elementare».

È andata a prendere la pagella?

«Certo, non l'avrei mai persa, come non ho perso il primo giorno di scuola».

Pubblica o privata?

«Pubblica. Come me e mio marito».

Però siete poi andati all'estero.

«Due cervelli in fuga. Sono molto contenta di essere tornata: sono legata al mio Paese e volevo fare la mia parte in un momento di crisi».

Come si definirebbe?

«Beh, determinata. Meritocratica. Attenta ai valori e agli aspetti umani: quando scelgo amici e collaboratori, mi piacciono con certi valori come onestà, trasparenza, generosità. È ovvio che cerchi anche persone con leadership e capacità di pensare a 360 gradi e a lungo termine, ma quelle sono le doti che per me fanno la differenza. Poi chiedo molto, agli altri e a me stessa. Ma sono anche una mamma coccolona: vorrei che mio figlio non crescesse mai».

Non si sente mai in colpa?

«No, non più. Il primo anno in cui sono tornata al lavoro è stato terribile: viaggiavo tanto, mi sentivo in colpa per tutto. Una volta ero a Miami e mia madre mi disse che Riccardo aveva fatto il primo passo. Però lì ho avuto un'illuminazione e ho pensato: e va bene, quando tornerò vedrò il suo primo passo per me».

Quante ore lavora al giorno?

«Mi sveglia mio figlio alle sei e mezzo, stiamo insieme fino alle 8.30 quando va a scuola. Se non viaggio cerco di tornare a casa per cena, intorno alle 8 e sto con lui altre due ore. Poi riaccendo il computer e lavoro ancora fino a mezzanotte».

Che cosa fa un Ad?

«Ha il ruolo di definire le strategie dell'azienda nel medio-lungo termine e gestire tutte le scelte del conto economico. È come un direttore d'orchestra: deve decidere dove portare l'azienda e come, in modo che tutti gli strumenti siano in armonia».

A volte è impopolare?

«A volte deve prendere decisioni difficili».

Un leader donna è diverso?

«Nella mia esperienza è il carattere che forgia lo stile di leadership. E credo che il carattere non abbia genere. Per me non esistono una leadership al maschile e una al femminile, sono stereotipi, il merito non ha genere».

La sua carriera può essere un modello per le altre donne?

«Credo che per le donne sia obiettivamente più difficile fare carriera: primo, perché a causa di stereotipi e pregiudizi una donna deve dimostrare più merito di un uomo; secondo, perché conciliare vita famigliare e lavoro è più difficile. Perciò avere modelli è importante, per avere un riferimento quando vuoi mollare».

Ma crede nelle quote rosa?

«Sì, ci credo. All'inizio no, quando ero all'estero. Però in Italia sono state utili, per dare uno scossone al sistema e permettere ad alcune di mostrare il loro talento. È importante che siano a termine però, perché il merito non si può imporre per legge».

Che cos'è il merito per lei?

«È quello che tu vali, quello che riesci a dimostrare perché sei tu. Il successo si realizza quando il talento incontra l'opportunità, ma per le donne ne servono di più».

Che altro serve?

«Una cultura diversa, a livello famigliare, nella divisione dei compiti. Il welfare: più servizi».

Ha dei difetti?

«Così tanti... Sono perfezionista, ma sto imparando a esserlo un po' meno. Altrimenti vedi sempre il bicchiere mezzo vuoto».

Neanche un vizio?

«Non fumo, non bevo, solo tanta Coca zero. E sono golosissima: mangio Nutella tre volte al giorno, checché ne dica Ségolène Royal».

Ma è una patita di cremine e trucchi?

«Non dovrei dirlo, però non ho molto tempo. Ho solo la matita intorno agli occhi. Poi ci sono tanti concetti di bellezza».

E per lei che cos'è?

«La valorizzazione della propria personalità e del proprio stile».

Ha mai sentito pregiudizi da parte dei colleghi maschi?

«Molti sono più stupiti per l'età. E poi ci sono i pregiudizi. Chiamano “dottore” il maschio e “signora” la donna. Oppure se sei donna pensano che tu faccia solo il marketing e non ti occupi di piani economici».

È vero che fa volontariato?

«Sì, ho iniziato da ragazza sulle ambulanze. Oggi anche come L'Oréal abbiamo una responsabilità forte in ambito sociale. Siamo impegnati su molti fronti».

Ad esempio?

«Con l'“Arte nel cuore”, una scuola a Roma i ragazzi disabili e no recitano insieme, a teatro. Tutti i nuovi assunti trascorrono là due giorni, così scoprono la disabilità e imparano la resilienza, che è fondamentale per un leader: la capacità di andare avanti indomiti, nonostante le mazzate della vita. Capire che bisogna restare umili e coi piedi per terra è una vittoria come azienda e come persone».

Ha altri sogni da realizzare?

«Non rispondo mai a questa domanda. Ne ho tanti, lavorativi e personali, ma per ora cerco solo di realizzarli. Se ne parla dopo».

Ma se oggi le chiedessero come si vede fra 15 anni, come in quel primo colloquio?

«A questo punto non risponderei. Ho imparato che ci vuole saggezza...

È la vecchiaia».

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