Cronache

Ma che verità processuale i Pm vogliono la gogna

Un libro di Maurizio Tortorella ricostruisce la deriva delle procure da Mani pulite a oggi. Le indagini trasformate in una punizione mediatica se è coinvolto un vip

Ma che verità processuale 
i Pm vogliono la gogna

Il danneggiamento di un’immagine pubblica, più che la verità processuale, sembra essere il vero motore immobile di molte inchieste. Gli esempi si sprecano. All’indagine milanese sul Rubygate si è aggiunta, nel febbraio 2011, una nuova sponda a Napoli. Qui la procura ha aperto un fascicolo su un giro di escort d’alto bordo, ipotizzando il reato di sfruttamento della prostituzione per alcuni indagati. In questo caso, Berlusconi non è nemmeno sfiorato dal sospetto. Ma sui giornali le due inchieste, quella milanese e quella partenopea, sono subito finite appaiate per colpa degli sms telefonici inviati dalla soubrette televisiva Sara Tommasi a una decina di personaggi più o meno vicini al presidente del Consiglio: da suo fratello Paolo al ministro della Difesa, Ignazio La Russa, fino a una serie di dirigenti della Rai, presentatori televisivi, attori e uomini di spettacolo.

In questi messaggi, intercettati dagli inquirenti e spesso sconclusionati, la Tommasi parla di droga e di sesso. Il problema è che, anche se del tutto irrilevanti dal punto di vista penale, gli sms sono finiti sulle pagine di tutti i principali quotidiani, a dispetto del segreto istruttorio e con effetti pesantissimi per la privacy di chiunque sia stato coinvolto. Come al solito, anche sul Rubygate e sulle sue appendici l’opinione pubblica e la politica si sono spaccate a metà, con due verità contrapposte e manichee: da una parte i berlusconiani, dall’altra gli antiberlusconiani.

Nella sinistra, in pochissimi hanno preso la parola per condannare l’impiego mediatico delle intercettazioni. Ma anche a destra, in pochi l’hanno fatto con l’efficacia e la competenza di Luciano Violante, ex magistrato ed ex parlamentare del Pci, dei Ds e infine del Pd. In un’intervista al Corriere della Sera del 10 febbraio 2011, l’ex presidente della Camera ha affermato che «cose del genere avvengono solo in Italia e in alcuni Paesi del Centro e Sudamerica» e ha criticato esplicitamente lo spazio «spropositato» che l’informazione dedica alla cronaca giudiziaria e in particolare alle intercettazioni. Violante ha affermato che in Italia esiste «un intreccio malato tra indagini e informazione». E ha spiegato: «Nell’antichità era pubblica l’esecuzione della pena che dimostrava la potenza del principe. Nell’età moderna la pubblicità riguarda il dibattimento, che dimostra l’equità e la controllabilità del processo. Oggi, nell’età dei mezzi di comunicazione, non abbiamo ancora stabilito il giusto equilibrio tra riservatezza delle indagini, tutela dei diritti delle persone coinvolte e diritto dell’opinione pubblica di conoscere e controllare».

Poi Violante ha colpito il vero punto dolente della questione: «L’accertamento della responsabilità arriva troppo tardi perché interessano solo le indagini». Parole altrettanto severe sono venute da Guido Calvi. Anche Calvi, come Violante e come Tinti, non è certo sospettabile d’indulgenza nei confronti di Berlusconi. Avvocato difensore di Massimo D’Alema e di altri importanti uomini politici al vertice del Pci - Pds negli anni di Tangentopoli, quindi parlamentare dei Ds e del Pd, oggi è membro «laico» del Consiglio superiore della magistratura. In un’intervista con il Riformista, Calvi ha criticato duramente l’utilizzazione distorta delle intercettazioni che «spesso hanno finito per coinvolgere e screditare la privacy di persone completamente estranee alle indagini».

Calvi ha aggiunto infine un elemento fondamentale della questione, troppo spesso sottaciuto: «La formazione della prova rischia di essere influenzata proprio dalla simbiosi, dallo scambio reciproco di documenti fra magistrati e giornalisti, che va ben al di là del circuito mediatico-giudiziario di Mani pulite». Un autorevole membro del Csm, insomma, ha denunciato l’esistenza di un asse strumentale tra alcune procure e alcuni cronisti, teso a rafforzare l’effetto delle inchieste giudiziarie e a devastare l’immagine degli indagati. A parte qualche sommessa polemica, e se si esclude un immediato giro d’indignate e-mail tra i pubblici ministeri più sindacalizzati, le dichiarazioni di Calvi non hanno però prodotto né smentite, né risultati. Ci si sarebbe potuti aspettare almeno qualche reazione ufficiale, per esempio da parte dell’Associazione nazionale magistrati. Invece, nulla. Un silenzio ovattato ha coperto le sue parole.

Lo stesso Csm ha fatto finta di non accorgersene, rafforzando l’antica, irridente ipotesi che l’acronimo significhi in realtà «Cieco, sordo e muto». Così la gogna continua ad andare avanti, come niente fosse.
E migliaia di pagine d’intercettazioni si trasformano, almeno una volta a settimana, nel grande romanzo dell’Italia contemporanea. È giusto che nei confronti dei personaggi pubblici il diritto alla riservatezza sia drasticamente attenuato, e questo vale nel caso di un’inchiesta giornalistica come in quello di un’inchiesta aperta da un pubblico ministero.

Non è possibile però negare che, al di là della vicenda strettamente giudiziaria del Rubygate, e ben oltre il recinto delle due specifiche accuse sollevate contro Berlusconi, in tutti questi mesi sia stato soprattutto il giudizio morale e moralistico impropriamente contenuto nell’inchiesta ad avere colpito l’indagato. Qualcosa di simile è accaduto anche all’inizio del giugno 2011: con l’abituale fuga di notizie è scoppiato lo scandalo sul calciomercato, che ha sollevato sospetti su più di trenta partite e terremotato il campionato. Le indagini, partite da Cremona, hanno coinvolto campioni del football, come Beppe Signori, accusati di avere truccato alcuni risultati. Molti di loro, da Daniele De Rossi a Francesco Totti, fino a Bobo Vieri, sono però stati sbattuti in prima pagina solo perché il loro nome veniva pronunciato nelle telefonate, intercettate, dagli indagati.

In questo modo, quasi senza accorgercene, siamo però tornati alla piena realizzazione dell’assioma formulato da Antonio Di Pietro una ventina di anni fa, e poi efficacemente confermato dal suo capo di allora, Francesco Saverio Borrelli: quello che conta non è tanto provare la colpevolezza degli indagati, perché l’importante è metterli alla gogna, punirli comunque per quanto è possibile che abbiano fatto. Una prospettiva indegna per chiunque abbia una visione liberale della giustizia.

E per chi crede che il garantismo non sia un valore opinabile.

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