«Chi applaude il boss è complice di un criminale Eppure non c’è reato»

SOLDI La «famiglia» aveva interessi nella droga e nella squadra di calcio locale

Tonino Perna, docente di Sociologia economica all’università di Messina, quell’applauso della folla al boss catturato a Reggio Calabria non è un reato. Ma che cos’è?
«No, tecnicamente non lo è. Ed è anche una situazione ricorrente in alcune aree del Sud, come la Calabria, la Campania o la Sicilia, quando viene catturato un capo che goda ancora di forti consensi. Succede in certi quartieri di Napoli, non è una novità neanche a Reggio».
E come si classifica?
«È un sostegno aperto a un capoclan. Però se si osservano i volti di chi applaudiva, molti sono parenti dell’arrestato. Insomma non è l’opinione pubblica della città: sono amici stretti o familiari. Era un capo, aveva degli affiliati. E loro hanno espresso solidarietà».
Ma quell’applauso somiglia a un reato?
«In passato si era parlato di reato anche per il lancio di monetine a certi politici, una forma di insulto grave. Ma il codice tollera queste forme di dissenso o di consenso».
La gente gridava: «È uomo di pace». Com’è possibile?
«Dal loro punto di vista è un uomo di pace. Nel quartiere che controlla non si spara, non si ruba, non si spaccia: è uno dei punti di forza dei clan. Magari appena fuori ci sono centinaia di morti ammazzati, ma nel loro territorio vige la pace, la gente lascia le chiavi in auto».
Non c’è altro?
«All’epoca della guerra dei clan a Reggio ci sono stati centinaia di morti. Poi, dopo sette anni, è arrivata la pace, intesa come spartizione di potere. Lui può aver avuto un ruolo importante».
Quindi è una definizione «tecnica»?
«Dipende dal punto di vista. Per noi è un capo criminale. Per chi gli è legato da rapporti di parentela, o di interesse, lui ha riportato la pace. Cioè la possibilità di fare affari in tranquillità. Per loro è un merito: le cosche non amano la guerra, che intralcia il business».
Tegano è stato latitante per diciassettenne anni, praticamente stava a casa sua...
«È latitante dal ’93, cioè l’anno successivo alla pace. Una volta raggiunta la posizione di potere è scappato. Ormai era un capo riconosciuto. È logico che in diciassette anni abbia trovato tante connivenze e coperture, probabilmente in molti ambiti. E che ora siano venute meno. Perciò è stato arrestato».
C’è un legame fra questa rete così radicata e l’applauso della folla?
«Certo. È un capo, dietro ci sono decine o centinaia di affiliati, persone che lo sostengono e dipendono da lui. Per loro è una perdita di protezione o anche di business, non si tratta soltanto di suggestione o di soggezione al boss. Molta gente dipende da questi capi e in questa parte della popolazione trovano consenso. Però la vera novità è stata un’altra».
E quale?
«La reazione spontanea di quel gruppo di cittadini che l’altra sera si è raccolto di fronte alla questura, per applaudire il lavoro delle forze dell’ordine. È la prima volta nella storia della città».
Un segnale?
«Erano circa cinquecento, si sono raccolti col passaparola. Non è un segno di cambiamento ma, almeno, di bilanciamento. Prima chi era fuori dal mondo delle cosche rimaneva indifferente».


La città si reagisce?
«Ora queste persone cominciano a ribellarsi. Anche a Palermo era così, prima della morte di Falcone e Borsellino: erano soli. Diciamo che l’altro giorno, dopo un primo atto molto deprimente, il secondo ci dà qualche motivo di speranza per il futuro».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica