A chi giova dire il contrario

Per non raccontare balle, bisogna subito dire che il federalismo fiscale non è il sol dell’avvenire. Non è il radioso futuro che i comunisti preconizzavano per il Novecento, non è la medicina che possiamo ingoiare per ogni occasione. Se la spesa viene gestita da una pessima classe politica, poco cambia che questa sia locale o nazionale, sempre pessime, la classe e la spesa, restano. Detto questo è anche completamente falsa la preoccupazione che esso comporti un ulteriore peggioramento dei conti pubblici. Ieri il Fondo monetario internazionale, un esperto nel guardare ai dettagli delle politiche fiscali, ha riconosciuto lo sforzo dell’Italia di andare verso un assetto federale della sua spesa pubblica e di conseguenza della riscossione delle tasse. Per gli espertoni del Fondo si tratta di una grande opportunità.
Sgombriamo subito il campo dal primo appunto di tipo ideologico-nazionalistico: ci sono fior di Paesi che pur adottando un modello federalista continuano a rispettare la propria bandiera e la propria nazione. Rispetto della patria e organizzazione territoriale dei meccanismi fiscali possono andare perfettamente a braccetto.
Più il federalismo si avvicina, dicevamo, e più le critiche si alzano. L’argomento più utilizzato e più sottile è il seguente: con il federalismo si spenderà di più. Come dimostra chiaramente l’intervista di Gian Battista Bozzo al sottosegretario Vegas, si tratta di un falso. Il venticello della calunnia continua a girare per due ragioni fondamentali.
1. La prima è di bottega: gli amministratori locali hanno paura di dover fare sul serio e adottare politiche di rigore. Citiamo l’intervista rilasciata ieri dal neopresidente della Regione Lazio al Corriere della Sera riguardo la richiesta fatta dal governo di alzare le imposte locali per coprire i buchi della sanità. «Sono andata a Palazzo Chigi - dice la Polverini - e ho spiegato che la Regione Lazio va vista con un occhio di riguardo rispetto alle altre». Ecco. Così non va. Ogni ente locale, ogni provincia, ogni comune avrà sempre milioni di buone ragione. La Polverini ha le sue argomentazioni, ma c’è da scommettere che simili ragionamenti si trovino ovunque. Il federalismo fiscale deve proprio impedire che ci siano «occhi di riguardo», deve essere una stretta costituzione formale entro la quale gestire i quattrini assegnati. Certo per il governo in carica che si è portato a casa tre regioni con i conti sanitari storicamente in rosso come Lazio, Calabria e Campania, saranno guai. Dovrà spiegare ai suoi uomini che non c’è più trippa per gatti, come diceva Nathan, il sindaco massone di Roma, e che l’epoca delle coperture a piè di lista è finita.
2. C’è una seconda ragione per cui le critiche al federalismo si stanno intensificando. Vi è una parte dell’opposizione che ha ben capito come sia difficile minare la maggioranza berlusconiana per via elettorale. È più facile cercare di disarticolarla al suo interno. E il federalismo è un boccone ghiotto. Su di esso si regge il patto di fuoco Di Berlusconi con la Lega. Affossare il federalismo è la chiave per scardinare la maggioranza. Se non si hanno i voti nel paese e nel parlamento, conviene andare per le vie interne. E nella maggioranza non si può certo negare che ci siano conflitti, che qui e là affiorano con forza. Ecco che il federalismo diventa una bandiera. Una delle poche a cui aggrapparsi. Il nemico da abbattere non è dunque l’organizzazione dello Stato e della sua fiscalità, ma il patto di governo che l’ha pensato.

Criticare il federalismo porta consensi proprio in quella classe dirigente che la maggioranza ha oggi nelle amministrazioni locali, e che, naturaliter, è piuttosto restia ad abbandonare l’irresponsabilità fiscale che è stata la regola fino ad oggi.

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