Oggi arriva in libreria un saggio che metà dei lettori troverà agghiacciante, mentre l’altra metà a fine lettura si lascerà sfuggire un grido di entusiasmo. Si tratta di Net Generation. Come la generazione digitale sta cambiando il mondo di Don Tapscott (Franco Angeli, pagg. 320, euro 39), risultato di una ricerca costata 4 milioni di dollari, in cui sono stati coinvolti sei dirigenti di progetto, Tapscott compreso, 33 ricercatori e 11 collaboratori, intervistate 10mila persone in 12 Paesi (dagli Usa all’India), ricavati 40 report e coinvolte a vario titolo una ventina tra istituzioni e aziende, da Mastercard a Manpower, dal Dipartimento della difesa degli Stati Uniti a Nokia.
La domanda alla base di una simile impresa è questa: dove sta la verità a proposito del tanto discusso rapporto tra i giovani e Internet? È vero che la Net Generation (1977-1997) sta cambiando il mondo con una profondità capillare e neuronale mai vista prima? È giusto affermare che i nativi digitali (o digital nomads) hanno ricacciato «nella preistoria», e senza andare troppo per il sottile, cultura e morale della Generazione X (1965-1976) e dei baby boomers (1946-1964)? Dal punto di vista antropo-sociologico, la quotidianità digitale è completamente diversa da quella che l’ha preceduta?
Si potrebbe rispondere di sì a molte di queste domande. Nel saggio - pieno di grafici, tabelle, proiezioni, nonché ricordi personali («Niki e Alex, i miei due figli ormai giovani adulti, sono stati negli anni la mia fonte di ispirazione principale» scrive l’autore) - Tapscott descrive con precisione millimetrica tutti gli smottamenti provocati da Internet nella vita più prosaica, e ce ne sono parecchi.
Prendiamo per esempio la giornata-tipo di un lavoratore appartenente alla Net Generation. Il vero Net Gener si vede al mattino (non sul presto, però). Tra la doccia e la colazione dà una prima occhiata al sito della sua segretaria personale digitale, una fanciulla inesistente dai nomi più rassicuranti («Sandy» era la più famosa quando nel 2009 Tapscott scriveva il saggio) che lo informa degli impegni in agenda e gli invia piccoli promemoria durante la giornata. Le notizie fresche le prende da Google News. Poi il Net Gener inizia a lavorare, ma da casa: tramite un client «wiki», per dirne una, verifica se il proprio cliente o capo ha nottetempo aggiunto materiale al faldone impalpabile delle mansioni da svolgere (contabilità internazionale, traduzioni, report...). Tra le pause lavorative, il Net Gener parlotta con parenti e amici usando Skype, poi, dopo una svelta ricetta etnica la cui preparazione è stata trovata sul web, si prepara per la palestra: nel senso che aggiorna l’iPod da ascoltare sul tapis roulant. Intanto la segretaria digitale sta lavorando per lui: appuntamenti professionali o privati vengono sincronizzati grazie al wi-fi della palestra, o del bar della palestra per alcuni.
Poi, finalmente, il Net Gener raggiunge un cliente in carne e ossa, orientandosi nella città con il Gps del Blackberry. Verso le cinque, ancora web: cercare il ristorante per la sera, pagare una bolletta, comprare il regalo per la mamma su Amazon, mettere foto sul sito di famiglia o su Facebook. La sera tardi, si guarda un programma tv sul web, poi un po’ di Xbox live con alcuni amici o l’ultimo ebook, e prima di prender sonno il Net Gener dà un’ultima occhiatina agli impegni per il giorno dopo, organizzati dalla sempre solerte digital-Sandy.
Tapscott non inventa: moltissimi suoi intervistati vivono così, i loro affari sembrano andare a gonfie vele, i rapporti personali non ne risentono. Per Tapscott le attività on line richiedono lo stesso impegno intellettuale di quelle nel mondo reale, se non di più, quindi non c’è nessuna «alienazione» in questo stile di vita. I Net Gener, racconta Tapscott, sono in media più bravi nello studio (soprattutto in matematica) di chi li ha preceduti; le loro capacità sociali sono rafforzate, e non compromesse; non «rubano» contenuti, nonostante il 77 per cento di loro ne scarichi di ogni tipo, ma «è solo che il loro modello di proprietà e vendita è diverso da quello passato»; i videogame in Rete non li istigano alla violenza (una tabella del Dipartimento Usa per la giustizia ci dice che tra i giovani è in calo da dieci anni) né al bullismo; la loro etica del lavoro è percepita come improponibile solo dai colleghi più vecchi e il loro impegno politico è consapevole ed efficace. Unici campanelli d’allarme: la perdita della privacy, che i Net Gener sembrano regalare con disinvoltura, e un certo ragguardevole narcisismo (dallo stadio dello specchio allo stadio dello schermo, senza il quale non si fa più nulla, commenterebbe Lacan).
«A ogni modo, questa è tutt’altro che una generazione vuota e materialista» conclude Tapscott (classe 1947), che sembra essere rimasto sedotto dall’oggetto dei propri studi. Tanto da elogiare («Non assumete, create relazioni» intitola un suo capitolo) la pratica della iper-relazionalità che oggi la fa da padrona in molti settori dell’economia incartata dell’Occidente, senza accorgersi che si tratta di una pratica ormai automatica, persino forzata, alla lunga sterile, che esclude sempre più ogni conflitto, evento o alterità radicale. Come diceva Fukuyama, la Storia è finita. Sul web.
E gli intellettuali in tutto questo che dicono? Quindici anni fa così si esprimeva Jean Baudrillard: «Così come si devono neutralizzare le difese immunitarie di un corpo per trapiantargli un cuore, si devono abolire le difese immunitarie della mente per iniziarla all’Intelligenza Artificiale. Con l’avvento di questa, gli intellettuali sono destinati a sparire com’è avvenuto per gli eroi del cinema muto con l’invenzione del sonoro. Siamo tutti dei Buster Keaton».
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