Per chi vuole lavorare il posto fisso non conta

Le ministre hanno ragione: vanno eliminati i vincoli del passato. Se amiamo davvero il nostro mestiere la mobilità sarà un’opportunità, non una minaccia

Per chi vuole lavorare  il posto fisso non conta

Dunque, riassumendo: sono bamboccioni, sfigati, vogliono il posto fisso e possibilmente vicino alla mamma. I ministri Cancellieri e Fornero, i loro superiori (Monti) e i loro sottoposti la pensano così, e non la mandano a dire. Le polemiche innescate dalle loro dichiarazioni, vista la prossima emergenza-gas, sono tra le poche capaci di riscaldare il freddo inverno.

Vorrei dare il mio contributo alla discussione cercando di guardare il problema sul piano antropologico, che dovrebbe essere il primo a esser preso in esame, mentre di solito non è nemmeno l’ultimo. Le parole della signora Cancellieri, per esempio, sembrano prese da qualche film americano (da anni il cinema da quelle parti si occupa del problema) anziché dall’osservazione della realtà italiana.
Diciamo subito che, fra tutti gli italiani, quelli che hanno meno paura della mobilità sono i lombardi, che sono anche, fra tutti gli italiani, quelli che possiedono una più solida cultura del lavoro. A noi lombardi piace lavorare, e questo è un dato che non bisogna ignorare solo perché non è quantificabile: è il nostro marchio.
Chi ama il lavoro e lo pone su un gradino alto nella propria scala di valori non teme la mobilità e non dà particolare importanza al posto fisso. Per noi lombardi conta non il posto di lavoro, ma il lavoro. E se la mobilità aiuta il lavoro, ben venga la mobilità.

I paladini del posto fisso stanno altrove: un leghista direbbe dal Po in giù. I nostri ministri devono tenere conto che l’Italia è già parecchio lunga, e che la sua storia complicata l’ha allungata ancora di più. L’Italia è un crocevia di culture diverse, è sempre stata così e sarà così ancora per un pezzo, e la signora Cancellieri e la signora Fornero devono rendersi conto che dietro questa parola, «Italia», ci sono tanti stili di vita diversi. E tanti modi diversi di intendere il lavoro.

Il mito del posto fisso ha la sua radice in questa diversità. È stata la soluzione geniale (anche se molto costosa) per conciliare la necessità di mantenere la famiglia e quella di mantenere il proprio stile di vita. Questo non significa lavorare meno o peggio: la mappa del lavoro in Italia è sorprendente su tutto il territorio, con livelli di eccellenza distribuiti ovunque e difficilmente raggiungibili in altri Paesi. Ma le culture del lavoro sono tante, e se c’è chi pone il lavoro al primo o al secondo posto (prima viene di solito la famiglia), c’è chi lo pone al quinto, al sesto posto.
Se c’è qualcuno che ama il lavoro, c’è chi lo ama un po’ meno: prima vengono gli affetti, poi viene il sacrosanto diritto di godersi la vita, poi vengono le passioni (il teatro, l’aeromodellismo, la cucina, la raccolta di francobolli...), e poi e poi e poi... ecco spuntare anche il lavoro.

Nelle terre «del posto fisso» non è che si lavori poco o male. Non è questo il punto. Si cerca il posto fisso perché, tra i modelli inventati finora, è il solo a garantire il mantenimento del proprio stile di vita, dei propri ritmi, della propria filosofia pratica (che, si sa, diventa sempre più importante man mano che si scende verso il nostro filosofico Sud) senza dover fare la fame.
Personalmente - per quello che conta il mio parere - sono totalmente d’accordo con i ministri, anche perché sono un forzato della mobilità.

Voglio solo dire che il modello che questo governo cerca di abbattere deve il suo successo a una serie di fattori antropologici e culturali di cui anche l’alternativa dovrà tener conto, e questo non è semplice. Il problema non sono i sindacati: bisogna domandarsi perché i sindacati in Italia sono come sono. E sono come sono perché così è fatta l’Italia, che è il Paese più diseguale che esista.

Anni fa una serie di norme europee in materia di igiene alimentare rischiò di mandare in fallimento la produzione di alcuni punti d’eccellenza del nostro paese: ad esempio, per ottenere certi formaggi pregiati sono necessarie alcune muffe che, con l’applicazione di quelle norme, verrebbero eliminate.

In quell’occasione ci si rese conto che la messa a norma avrebbe avuto l’effetto del famoso elefante nella cristalleria.
Non vorrei che il tentativo di mettere a norma il lavoro in Italia (che equivale a mettere a norma l’Italia) sortisse un effetto simile, solo con qualche milione di megaton in più.

Bisogna ricordare che, almeno da noi, il lavoro non è una funzione dell’economia e non si definisce mediante concetti economici. Esso viene prima dell’economia, e come tale va considerato: nella sua complessa radice umana, che come tale non può essere messa a norma.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica