Non c'è mondo più conformista di quello musicale in cui la ribellione al «sistema» è sempre di moda, fa vendere qualche copia e aiuta a nascondere la povertà artistica. Tutto questo a patto che il «sistema» sottoposto a critica sia il capitalismo. Vediamo così schiere di attempati milionari cantare la poesia delle periferie operaie immiserite dai padroni-sfruttatori. Pazienza se gli attempati milionari vivono da decenni nei villoni di Beverly Hills con una schiera di servitori, godendo (giustamente) dei privilegi del «sistema» che dicono di voler abbattere. E questo nel migliore dei casi. Nel peggiore, le star sposano la poco impegnativa agenda del politicamente corretto, fingendo di essere «alternative» alla massa incolta. In realtà, nessuno è più integrato e meno trasgressivo di queste persone che sfondano porte aperte con l'aria di assumere posizioni scomode.
Nel 1976, i canadesi Rush assumono una posizione davvero scomoda con il loro quarto album 2112. È il momento del punk, già pronto a trasformarsi da movimento anarcoide in «un po' di citazioni di Marx con uno straccio di melodia sotto» (così Johnny Rotten, voce dei Sex Pistols e massimo rappresentante del genere, ha stroncato i Clash). Velocità e brutalità sono requisiti obbligatori per ottenere consenso critico. Senza curarsi delle reazioni, i Rush sfoggiano invece una suite di 20 minuti ispirata ad Antifona, il romanzo distopico (edito da Liberilibri) con cui Ayn Rand, prima di George Orwell, metteva alla berlina il socialismo. Musicalmente, i Rush ignorano i suoni alla moda e si propongono come termine di paragone nei decenni a venire: missione compiuta, infiniti gruppi vorrebbero suonare «alla Rush». Come contenuti, si collocano invece nel campo libertario: individualismo, capitalismo, anarchia. Un territorio sconosciuto alla maggior parte degli europei. Una bestemmia nella chiesa del rock. Non a caso la stampa inglese, che un tempo dettava le tendenze al resto del Continente, lancia accuse di fascismo. L'album è uno schiaffo in faccia a qualunque dittatura (al totalitarismo sovietico in particolare). Ma sappiamo come ragiona una parte della sinistra: se non sei comunista, sarai certamente fascista. In un altro caso, l'errore sarebbe comico. In questo caso, è imbarazzante. Geddy Lee, bassista e voce dei Rush, è figlio di una coppia di ebrei sopravvissuti ai lager nazisti e non ha simpatia per chi veste la camicia nera.
Oggi 2112 è celebrato con una edizione speciale che contiene, oltre all'album, la rilettura di alcuni brani da parte di stelle del momento (Dave Grohl, ex Nirvana, gli Alice in Chains, i canadesi Billy Talent) e una rara esibizione dei Rush del 1976, anche in dvd. Oltre alla menzionata suite, 2112 si compone esclusivamente di cavalli di battaglia quali A passage to Bangkok o Tears. Un ripasso non fa mai male.
Naturalmente, se la questione fosse solo «politica» non varrebbe la pena di parlarne. Tanto più che i Rush non sono militanti e nel tempo hanno preso distanza dalle posizioni più radicali della Rand. Ma 2112 è un disco storico per molti aspetti, soprattutto musicali. Il gruppo canadese trova il suo suono, poi tanto imitato quanto inimitabile: potenti architetture hard «imbrigliano» il virtuosismo dei musicisti, che esplode solo sul palcoscenico. Si evitano così le lungaggini di troppo rock anni Settanta senza perdere in fascino.
La storia raccontata nel disco è una metafora della libertà artistica e non solo. Nel 2112, La Federazione, che ha come simbolo una diabolica stella rossa, domina la galassia imponendo l'uguaglianza assoluta in ogni campo. Un uomo trova una chitarra in una grotta e familiarizza con le sei corde. In quel momento inizia a rinnegare il «noi» imposto dalla società per scoprire l'«io» figlio della creatività. La Federazione è sorda e non vuole saperne. Rifiuta e condanna l'individualismo. L'uomo allora fugge. Un sogno gli rivela l'esistenza di un'altra civiltà, più libera. Sostituite la chitarra con l'elettricità e avrete, più o meno, la trama di Antifona.
Subito 2112 fa il botto, entra nel novero dei dischi di culto e addirittura in alcuni libri di filosofia.
Geddy Lee, Alex Lifeson (chitarra) e Neil Peart (batteria) si guadagnano un seguito fedelissimo: forse i dischi più recenti non hanno il tocco magico degli esordi ma ancora convincono migliaia di fan ad assistere ai concerti. Ottenere successo inseguendo un ideale artistico senza compromessi: i Rush assomigliano al protagonista di 2112.
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