Il Cia-gate scatena il terremoto alla Casa Bianca

L’uomo forte del vicepresidente dovrà rispondere in tribunale di cinque pesanti capi d’imputazione

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Il Gran Giurì ha parlato: la legge è stata violata ripetutamente durante l’inchiesta sulla vicenda di Valerie Plame e l’uomo indicato come colpevole è Lewis «Scooter» Libby, braccio destro del vicepresidente Dick Cheney, mentre rimane aperto il caso di Karl Rove, intimo collaboratore del presidente Bush. Quest’ultimo dettaglio può consentire alla Casa Bianca di tirare un sospiro di sollievo, ma è anche l’unico motivo di consolazione. L’atto di accusa contro Libby, infatti, è molto pesante: cinque capi di imputazione, due riguardanti menzogna, due spergiuro e uno ostruzione alla giustizia. Non è stato chiesto il suo rinvio a giudizio per il reato originariamente contestatogli, cioè l’aver rivelato l’identità di un agente segreto della Cia. Il magistrato inquirente non è riuscito, su questo punto, a convincere la giuria: «Nessuno, neppure gli amici di Valerie Plame, a quel tempo sapeva dell’incarico alla Cia - ha arringato Patrick Fitzgerald -. Nessuno sapeva che avesse una doppia vita. «Libby è il primo alto dirigente ad aver rivelato l’identità di Plame e ha ripetutamente mentito in seguito». Ma Libby (che subito dopo l’annuncio si è dimesso dalle sue cariche, con una lettera a Cheney e un’altra a Bush) è accusato di avere mentito all’Fbi sostenendo di aver appreso da un giornalista l’identità di Valerie mentre invece il nome gli fu fatto da Cheney. Di aver mentito al Gran Giurì in proposito e sulle modalità e i tempi dell’«indiscrezione» e di aver cercato di impedire che la giustizia facesse il suo corso. Capi di imputazione che, sommati, comportano fino a 30 anni di prigione. Il magistrato, Patrick Fitzgerald, ha, in una lunga e affollata conferenza stampa, comunicato le decisioni ma ha rifiutato di fare altri nomi e, comunque, di persone di cui non si parla nell’atto di imputazione: «L’inchiesta comunque non è finita». Ciò nonostante il processo che si annuncia ha un’evidente e forte «carica» politica. Quasi certamente Cheney, «fonte» delle rivelazioni, sarà chiamato a deporre, e sarebbe la prima volta in 135 anni che un vicepresidente in carica compare nell’aula di un processo penale. Ed è riemersa fin dal primo momento la domanda centrale, sui moventi di una iniziativa illegale che successivamente si è cercato di «coprire» incorrendo nella sfilza di reati di cui Libby è ora accusato.
Non ci sono fatti nuovi, anzi la vicenda è fin troppo nota. Fra i motivi addotti dal governo americano per l’azione militare in Irak c’era quello dell’uranio che Saddam Hussein avrebbe cercato di acquistare nel Niger per dotarsi di un’arma nucleare con cui mettere in pericolo gli Stati Uniti. Quando affiorarono le voci in questo senso, Cheney incaricò la Cia di compiere indagini e l’Agenzia spedì sul posto il diplomatico Joseph Wilson. Al suo ritorno questi comunicò che non c’era niente di vero. Era il maggio 2003 e la guerra in Irak era cominciata in marzo; anzi il presidente Bush l’aveva già dichiarata conclusa. Di ritorno a Washington, Wilson cominciò a «raccontare in giro» le conclusioni della sua missione e subito dopo ambienti dell’Amministrazione cominciarono, almeno da quanto è emerso dall’indagine, a screditarlo, e forse a esercitare pressioni su di lui attraverso la rivelazione del ruolo di sua moglie, Valerie Plame, come agente «coperto» della Cia. Ma Wilson allora scrisse un articolo per il New York Times, pubblicato il 6 luglio, in cui si accusava la Casa Bianca di avere usato informazioni false per giustificare l’attacco. E poco dopo un columnist, Robert Novak, fece il nome di Valerie. Di qui la lunga inchiesta, che portò fra l’altro all’incarcerazione per «ostruzione di giustizia» per più di due mesi, di una giornalista del New York Times, Judith Miller, che si rifiutò di rivelare la sua fonte. Quando parlò, venne fuori il nome di Libby. Il «caso» diventò subito politico, proprio perché inevitabilmente si profilò la deduzione che si fosse tentato di «ammorbidire» Wilson per difendere una delle basi false della guerra in Irak. Fu ben presto chiaro, infatti, che non c’erano prove che Saddam Hussein possedesse o fabbricasse «armi di distruzione di massa». Questo fatto orientò i sospetti di una «macchinazione» su Rove, regista delle campagne elettorali di Bush, noto per la spregiudicatezza dei suoi metodi e, con più credibilità, su Libby, che a differenza di Rove aveva una «agenda» ideologica. Egli fa parte di un gruppo di politici e intellettuali che per quasi vent’anni aveva invitato i vari presidenti a intraprendere un’azione militare per rovesciare il regime di Saddam Hussein, considerato il massimo pericolo nel Medio Oriente. Bush li ascoltò dopo la strage dell’11 settembre 2001 a New York.
E continua a difendere questa sua decisione anche dopo che la guerra in Irak è diventata sempre più impopolare ed è calato, soprattutto per questo motivo, il suo «indice di approvazione» presso il pubblico americano.

Pochi minuti dopo l’annuncio dell’incriminazione di Libby, Bush ha ribadito che l’America «non si darà per vinta e non abbandonerà questa sua missione». Nelle stesse ore il vicepresidente Cheney ha tenuto un discorso alle truppe in una base militare.

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