«CIAK SI LEGGE», LA TV FA MALE AI LIBRI

Raccontare i libri attraverso il linguaggio cinematografico, coglierne l’essenza usando le immagini di un «corto» appositamente preparato per illustrare un romanzo e «mostrarlo» al pubblico televisivo, solitamente tiepidino quando si parla di libri in tivù. Questa, in sintesi, l'ambizione di Ciak si legge: quando il cinema racconta i libri, esperimento innovativo che Raiuno ha mandato in onda in occasione della quinta edizione del premio letterario Forte Village (domenica, ore 23.55). Quattro registi hanno realizzato ciascuno qualche minuto di pellicola per interpretare i libri finalisti del premio: Le uova del Drago di Pietrangelo Buttafuoco (vincitore di questa edizione), Pranzo di famiglia di Alessandra Farkas, Il sorriso del vento di Pietro Gaffuri, Say goodbye di Delfina Rattazzi. Detto così sembra che tutto fili liscio, e che si sia trovato finalmente il bandolo della matassa, o se volete la formuletta magica, per rivitalizzare l’ossessionante missione di far digerire «il libro in tivù». Nel corso degli anni ci si è provato in mille modi, dalla trasmissione-mattone a quella ironica, dal salottino letterario sino all’espediente della contaminazione dei generi. Perché non tentare anche con il cinema? Fatta salva e messa in rilievo la novità dell’iniziativa (indirizzata a togliere muffa dal rito dei premi letterari), l’esperimento sembra riuscito a metà: cattura la diversità di approccio al libro, la voglia di farlo annusare con qualche rapida lettura di alcuni suoi passi accompagnata dalla suggestiva immersione nella dimensione immaginifica, ma irrita non poco la visibile ricerca di una sofisticata ermeticità espressiva: ogni regista dà l’impressione di aver voluto fare esercizio di stile, una sorta di saggio tecnico, più che cimentarsi con l’arduo compito di trasmettere «l'anima» del libro prescelto. Cosicché lo spettatore, un po’ perso tra inquadrature incomprensibili e dissolvenze ricercate, e poco aiutato dalle scarne informazioni fornite dalla conduttrice Margherita Ramacciotti, non è certo messo nella condizione di comprendere non solo l’anima del libro, ma più modestamente di cosa parli. Se è vero che un modo certo per uccidere un libro è di presentarlo affogandolo di parole, svelandolo troppo, qui si incorre nel pericolo contrario: l’eccesso di nebulosità, la pretesa di non aver bisogno di farsi capire.

Tra le cose difficilmente comprensibili, anche gli interventi «filosofici» di Amedeo Minghi e un intermezzo pseudocomico con interviste carpite agli scrittori a loro insaputa, con esito poco divertente ma molto spiazzante. Il ricorso al siparietto comico continua ad essere, chissà perché, una sorta di «obbligo» persino nelle trasmissioni che si propongono come innovative.

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