Controcultura

Ciardo e l'impressionismo che sa di Mediterraneo

Nelle opere del pittore salentino c'è una grande densità psicologica che tende all'astrazione

Ciardo e l'impressionismo che sa di Mediterraneo

Una scoperta inattesa, e una riemersione dall'oblio, è quella toccata in questi giorni al pittore Vincenzo Ciardo, salentino, nato a Gagliano del Capo il 25 novembre 1894, in una mostra curata da Daniele Vitali, nella bella città del Salento. Ciardo fu operoso negli anni difficili del primo dopoguerra mentre, dopo la rivoluzione delle avanguardie, si stabiliva il ritorno alla pittura attraverso i precetti di Margherita Sarfatti, tra «Novecento» e «Valori plastici»; e nell'ancor più contrastato percorso del secondo dopoguerra, tra pittura astratta e neoavanguardie.

Ciardo non era un semplice tradizionalista, un pittore conservatore, ma guardava le istanze dei pittori di maggior gloria, da De Chirico a Dorazio, con dichiarata competizione. In Puglia questa condizione tocca diversi pittori di indiscutibile talento, da Onofrio Martinelli a Giuseppe Ar, a Emanuele Cavalli, fino a Raffaele Spizzico. I confini della produzione di Ciardo sono definiti, pur nella vastissima produzione, e le ricerche nell'archivio a Gagliano del Capo ci consentono di ricostruire, tra Roma, Napoli e il Salento, la sua notevole esperienza, precoce e colta. In uno scritto, Colori e pennelli in grigio verde, racconta dei suoi inizi: «Recluta della classe 1894 a Roma, battaglione aerostieri - ordine del comando di presentarmi in un certo ufficio. L'ufficiale al quale mi presentai mi disse che, risultando dal mio foglio matricolare che ero un pittore diplomato, mi si dava l'incarico della coloritura ad imitazione del marmo dei lambrò del corridoio del Comando. Mi si concedevano dieci giorni di tempo con esenzione dal servizio. Dovetti accettare, però chiesi e ottenni che mi venisse assegnato quale collaboratore un amico del mio plotone, pittore pure lui. Ed eccoci al lavoro. A ripensarci oggi, con tutto quel guazzabuglio di strisce e macchie colorate, facevamo senza saperlo dell'astrattismo! A lavoro ultimato fummo complimentati per la nostra bravura. Lodi e complimenti da noi accolti con aria fintamente compunta. Altra esperienza del genere mi attendeva quando, durante la guerra 15/18, fui trasferito all'isola di San Paolo, nel golfo di Taranto. Anche lì si seppe che ero un pittore e mi venne ordinato di mimetizzare, con adatte stesure di colore, due cannoni piazzati lungo la riva dell'isola. Per una settimana fu un continuo andirivieni in motoscafo per controllare a distanza i risultati delle mie... fatiche pittoriche. Tutto anche lì andò bene e, da allora in poi, per i commilitoni, fui il caporal pittore e, come tale, trattato con grande rispetto... - Fu quello l'inizio esilarante della mia carriera di artista!». Fra questi inediti documenti si trovano aneddoti di vita privata e militare e testimonianze del suo sodalizio intenso e commovente con il grande, e altrettanto dimenticato, poeta di Lucugnano, Girolamo Comi. E impuntature critiche di cronache mondane, viste dalla provincia, intorno a figure come Gina Lollobrigida, Jacqueline Onassis, De Chirico, con interessanti e spiritose osservazioni.

I primi studi di Ciardo furono con Michele Palumbo. Subito dopo si trasferì a Urbino per frequentare l'istituto di Belle Arti sotto la direzione di Lionello Venturi. Nel 1920 iniziò la sua carriera di insegnante di disegno presso le scuole di Napoli. Qui, nel 1927, assieme a Giuseppe Casciaro, fondò il «Gruppo Flegreo», un sodalizio di giovani pittori che riprendono le tematiche artistiche dell'Ottocento impressionista europeo; nello stesso tempo coinvolge nel suo entourage De Nittis, De Gregorio e altri artisti dell'ambiente napoletano, tanto da divenire, nel 1940, direttore dell'Accademia di Belle Arti.

Ciardo, pur avendo vissuto per quasi cinquant'anni a Napoli, rimase intimamente salentino, e ogni estate tornò a Gagliano del Capo. Il riconoscimento del suo merito, in relazione ad artisti come Giuseppe Casciaro e Giovanni Brancaccio, è testimoniato dalle sua presenza fin dagli anni Trenta alla Quadriennale di Roma e alla Biennale di Venezia, dove espose nel 1934 e nel 1936, e nel 1956 con una sala personale. Pittore prevalentemente di paesaggi, a Napoli nella zona flagrea fra Torregaveta e Lucrino e, costantemente, in Salento nei ritorni a Gagliano del Capo, Ciardo si rivela un non marginale e non sprovveduto post-impressionista, con una cifra stilistica fortemente riconoscibile e mai veramente illustrativa. C'è una densità psicologica nella sua pittura, che si muove tra Bonnard e Vuillard e Filippo de Pisis, con esperienze estreme di tachisme che risalgono al pointillisme, alla pittura fauve e a Matisse, e una capacità di decantare e reinterpretare il linguaggio del primo impressionismo di Monet e delle esperienze più radicali di Cézanne e di Van Gogh. Nelle nature morte Ciardo si misura con il disprezzato De Chirico di cui scrive, beffardo (1956): «La pittura sua attuale,/ tutta frutta e cavalieri,/ ricorda molto male/ quel che già si è fatto ieri./ Suole dir nell'intervista,/ con facciatosta sorprendente:/ sono io solo grande artista/ gli altri tutti valgon niente-/ Che di lui si pensi o scriva male/ non gli importa proprio niente,/ purché la stampa nazionale/ di lui parli giornalmente./ Sicché di dire mi permetto/ che la gran pubblicità,/ di cui sempre è fatto oggetto,/ fa il suo gioco e ciò non va!».

Diversamente da De Chirico, Ciardo vive riparato, nei luoghi remoti dove le emozioni si salvaguardano dalle esibizioni. Eppure di questa profonda numinosità non c'è chiara percezione in quanti si sono applicati a proporne l'esegesi. Tra gli altri spicca, in morte del pittore (1970), Filiberto Menna, intransigente critico d'avanguardia, di cui si conoscono gli scritti su Mondrian e le posizioni in netto favore delle più rigorose forme di astrazione: «Aveva studiato ad Urbino, e questo è già un dato importante per indagare sulla sua preistoria. Dallo sterminato, fino quasi all'informe, delle pianure pugliesi si passa a una natura che sembra già tutta sorretta dalla regola dell'arte. Urbino (come per altri Firenze) doveva significare la forma, il definitivo, il chiaro e il distinto... Non so se la cultura e la tradizione artistica napoletana gli abbiano dato qualcosa. Forse egli ha preso più della cultura in senso generale che non dalla tradizione specificamente pittorica. Del resto, a voler operare a Napoli in senso nuovo nel primo dopoguerra, era assolutamente necessario voltare le spalle alla città e guardare altrove. Credo che Ciardo abbia fatto proprio questo, guardando piuttosto a ciò che avveniva in altri centri di cultura e ricollegandosi alla grande tradizione moderna che parte dalla cultura impressionista. E anche quando se ne andava in giro in cerca di nuovi motivi, li scovava sempre in luoghi inediti, per sentieri poco battuti, preferendo il paesaggio arido e desolato di certi dintorni campani che in qualche modo lo potevano ricondurre alla natura della sua terra salentina, suo vero motivo ritornante. Ma il taglio della sua pittura era del tutto moderno, come nuovo era il suo colore ingabbiato in una sorta di rete geometrica. Era la sua astrazione, il lato mentale della sua pittura. Ciardo non chiudeva il varco al sentimento, ma era troppo sottile per non avvertire che la pienezza del cuore non porta molto lontano se non è sorretta da una strenua, rigorosa e ascetica consapevolezza formale. Del resto anche lui era così. La sua qualità migliore era l'asciuttezza e, perché no?, anche la capacità di convincimenti radicali ed esclusivi».

Una pagina critica ancora perfetta, a indicare il senso di una sperimentazione che non andava mai oltre i confini della figurazione, ma con una visione sintetica e rarefatta che non lascia spazio a nostalgie e commemorazioni del paesaggismo classico, soprattutto napoletano. I luoghi della sua visione sono tanto più definiti quanto meno descritti, particolareggiati. Sono luoghi della mente, dei quali Ciardo restituisce la densità di stati d'animo, di turbamenti, di inquietudini cui soccorre la stesura pittorica sincopata, ellittica, tendente alla astrazione, senza perdere di vista il tema, la verità dei luoghi, la sostanza della memoria. È in questa dimensione spirituale che si pone il rapporto di Ciardo con la poetica spiritualistica di Girolamo Comi. Una affinità intellettuale, non locale: «Ho fame ancora di cose terrestri,/ di oscuri umori di vita, di forme/ tanto più dolci quanto più vi dorme la morte.../ (paesaggi che il mio fiato ha fatto densi/ di consistenze quasi umane, adoro/ con la malinconia di tutti i sensi/ il vostro autunnale alito d'oro...)/ Ho desiderio ancora/ di stagioni caduche ove si spegne/ la bellezza goduta, la memoria/ di un'età consumata e di ore pregne/ della malinconia della mia gloria.../ So della morte... Ma la prepotenza/ del creato mi assedia ed io deliro/ vinto dal sangue e dal cupo respiro/ della mia carne ch'è concupiscenza:/ e la tentazione mi conduce/ a non volere, a non volere più/ la celeste ricchezza della luce/ di cui l'anima seppe la virtù».

Anche Vincenzo Ciardo è un poeta.

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