Quando scrive La cimice, nel 1928, Vladimir Majakovskij ha già preso atto del fallimento della rivoluzione bolscevica. Prisypkin, il protagonista della commedia, è infatti un operaio che vuole elevarsi socialmente: abbandona quindi linnamorata Zoja, rinnega i compagni e si sposa con la cassiera Elzevira. Alla festa di nozze tutti muoiono in un incendio tranne lui che, congelato dai getti dacqua dei pompieri, viene ritrovato cinquantanni dopo allinterno di un blocco di ghiaccio e riportato in vita dallIstituto di Rianimazione. Il mondo che loperaio si trova di fronte è quello del comunismo realizzato: una società in cui i bisogni vengono soddisfatti ancor prima di essere espressi, in cui luguaglianza ha prodotto una standardizzazione dei desideri e in cui la brama di possesso - ma in ultima istanza di vita - di Prisypkin è vista come una pericolosa malattia. Nel blocco di ghiaccio è rimasta imprigionata anche una cimice, un animale ormai estinto: quando il raro parassita viene portato allo zoo, Prisypkin chiede e ottiene di essere rinchiuso a sua volta in gabbia, in quanto ultimo esemplare di «borghesius vulgaris»...
In scena al Piccolo dal 4 al 24 maggio, «La cimice» di Majakovskij nella versione di Serena Sinigaglia si interroga su quel che resta dellutopia in unepoca di disincanto. Il tema era già stato affrontato dalla trentenne regista milanese in «Crolli», lo spettacolo dedicato a quell«anno straordinario» che è stato il 1989. Oggi la Sinigaglia ritorna per alcuni versi sui suoi passi svolgendo però una riflessione di ampio respiro storico, meno legata allillustrazione dei fatti di cronaca, che ha al centro lincapacità di essere allaltezza degli ideali rivoluzionari. Il suo Prisypkin - che ha in Paolo Rossi un interprete ottimale - è un individuo meschino e grottescamente comico, la cui affermazione ricorrente è «mio, mio, tutto mio». La meschinità è però connaturata alla condizione umana, e lunico modo di farvi fronte, secondo la regista, consiste nel «costruirsi nel proprio piccolo dei paradigmi etici».
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