In Cina il 91% di tutte le condanne a morte

Nel 2002 la pena capitale vigeva in 63 i Paesi, oggi in 58. La Bielorussia è l’unico Stato europeo a praticarla ancora

In Cina il 91% di tutte le condanne a morte

Marta Ottaviani

La Cina mantiene un primato poco onorevole: è il luogo dove si sono praticate più esecuzioni capitali nel 2004. A renderlo noto è il rapporto «La pena di morte nel mondo», presentato ieri a Roma dall’associazione «Nessuno tocchi Caino». L’anno scorso, su 5.476 esecuzioni, il 91,3 per cento è avvenuto in Cina. Sebbene nel Paese il numero di esecuzioni sia ancora un segreto di Stato, gelosamente custodito dal regime comunista, nel 2004 si è potuta avere una stima abbastanza realistica della situazione.
Il 15 marzo dell’anno scorso, Chen Zhonglin, deputato al Congresso nazionale del popolo, ha dichiarato al «Quotidiano della gioventù cinese» che in Cina vengono emesse circa 10mila condanne a morte ogni anno, che vengono immediatamente eseguite. Nel 2002 un libro intitolato «Disidai o La quarta generazione» e scritto da un membro del Partito comunista cinese sotto lo pseudonimo di Zong Hairen, ha denunciato che dal 1998 al 2001 sono state giustiziate circa 60mila persone. Numeri inquietanti, che vanno ben al di là delle versioni più o meno ufficiali, anche se secondo l’associazione «Nessuno tocchi Caino», la stima più attendibile è da collocare fra le 5.000 e le 10mila esecuzioni annue.
L’unico dato certo è quello del 9 marzo scorso, quando Jia Chunwang, capo della Procura suprema del popolo, ha reso noto che in Cina nel 2004 sono state incarcerate più di 800mila persone, accusate di minacce alla sicurezza dello Stato, attività terroristiche, separatistiche o comunque estremistiche. In particolare, i dissidenti e gli oppositori politici vengono solitamente tenuti in carcere con l’accusa di minaccia o messa a repentaglio della sicurezza statale. Le zone del Paese dove questa repressione si è fatta particolarmente sentire sono il Tibet e la provincia nord-occidentale dello Xinjiang, l’ex-Turkestan a maggioranza musulmana e turcofona.
Per prevenire censure da parte della comunità internazionale, il governo di Pechino sta pensando a centralizzare nuovamente il potere di approvare le condanne a morte. Dal 1983 la possibilità di emettere sentenze capitali è stata estesa anche alle 300 Alte corti delle Province, sparse sul territorio nazionale. Demandare tutto nuovamente alla Corte suprema di Pechino dovrebbe portare anche a una diminuzione delle esecuzioni.
Intanto, in Cina, non si ferma la lunga scia di morte. Anzi, adesso riesce anche a spostarsi per il Paese. Dal 1997, infatti, è stato adottato come metodo per esecuzioni capitali l’iniezione letale. Negli ultimi anni molte province si sono munite del «furgone della morte», ossia una camionetta della polizia opportunamente modificata in «stanza» delle esecuzioni. Al suo interno si trova un lettino che si alza e si abbassa come un tavolo operatorio e su cui si siede il condannato. I furgoni attraversano tutto il territorio cinese. La loro introduzione è stata salutata dal governo come un «grande progresso». Costano 48mila euro l’uno e sono dotati di televisioni a circuito chiuso per trasmettere l’esecuzione ai membri locali del Congresso nazionale del popolo.

Per ogni esecuzione con iniezione letale il governo paga 92 euro, ma almeno risparmia alla famiglia del condannato l’ultima umiliazione. Finché era in uso la fucilazione, i parenti dovevano versare nelle casse dello Stato cinese i soldi della pallottola.

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