"In Cina moriranno anche le Olimpiadi"

Lu Decheng: "Scandaloso che un antico simbolo di pace come i Giochi abbia luogo nel più repressivo Paese del mondo. Ci guadagneranno solo gli aguzzini del mio Paese". È stato condannato a 16 anni per la rivolta di Tienanmen, fuggito in Canada, è diventato paladino della resistenza. E attacca il regime

"In Cina moriranno anche le Olimpiadi"

Lu Decheng aveva 26 anni e si avviò al martirio assieme ai due impronunciabili amici Yu Xhijing e Yu Dungyae. Era il 23 maggio 1989 e il loro fu un gesto preparato, deliberato: presero delle uova, le siringarono di vernice e le scagliarono contro lo storico ritratto di Mao Zedong di Piazza Tienanmen, là dove dieci giorni dopo sarebbero stati massacrati dai 2600 a 3000 studenti nella più clamorosa rivolta per la democrazia mai organizzata prima e soprattutto mai trasmessa in mondovisione. Fecero da miccia: tirarono le uova e poi restarono ad attendere il loro destino, serafici. È per questo che verranno soprannominati The gentlemen.
Lu Decheng fu condannato a 16 anni e i due amici, rispettivamente, a 20 anni e all'ergastolo. Ma dal 1998 al 2006 in un modo o nell'altro sono stati rilasciati tutti. Lu Decheng però è riuscito a scappare, si rifugiò prima in Thailandia e poi a Calgary, in Canada, dove ha creato una fondazione. Ora è di passaggio in Italia.
Lu, come si viveva in Cina nel 1989?
«Studenti, operai e contadini non ce la facevano più: è per questo che accorrevano in massa a Tienanmen, la piazza delle cerimonie ufficiali. Tutti discutevano, attaccavano manifesti, invocavano la democrazia: allora il governo, il 20 maggio, impose la legge marziale, ma il popolo bloccò l’entrata dei carri armati. Anche nel Partito c'erano segretari come Zhao Ziyang che simpatizzavano per noi, e anche una parte dell’esercito strizzava l'occhio alla rivolta. Almeno all’inizio».
E lei che cosa decise di fare?
«Io ero autotrasportatore. Dissi a mia moglie che andavo a Pechino a sostenere gli studenti, e lo stesso fecero decine di migliaia di lavoratori e contadini dalle province. Il resto lo sapete. Con Yu Dungyae e Yue Zhijing, il 23 maggio, gettai uova piene di vernice sul ritratto ufficiale di Mao, poi aspettammo la polizia per essere arrestati. Da qui il soprannome “Gentlemen”, perché i gentiluomini non scappano».
Dunque lei non vide il massacro del 4 giugno, in Piazza.
«Ero già stato arrestato, ma so che carri armati, mitragliatrici ed esercito attaccarono i manifestanti verso le 22 e 30 del 3 giugno: furono principalmente le armate 26ª e 27ª che attaccarono. La 27ª fece il lavoro sporco, e alle 5 e 30 del 4 giugno il massacro era compiuto. Altre repressioni continuarono in altre città».
Che accusa rivolsero a lei e ai suoi amici?
«Distruzione controrivoluzionaria e incitamento alla rivolta».
Che cosa le accadde?
«Dopo dieci anni di prigione e di laogai fui rilasciato nel 1998. Nel 2004 fuggii in Thailandia e poi nel 2006 fui accettato come residente in Canada, come rifugiato politico. Ma il regime cinese ha in mano la mia famiglia, cui ovviamente non permettono di raggiungermi».
E i suoi due amici?
«Yu Zhijian fu rilasciato nel 2001, ma poi fu riarrestato perché aveva fatto uno sciopero della fame contro la repressione: perse il lavoro di insegnante e oggi sopravvive in miseria. Yu Dongyue, invece, il più giovane, è stato rilasciato l'anno scorso, ma a furia di torture ne è uscito pazzo: sorride a tutti, recita parole incomprensibili e non riconosce più neppure il fratello. Vive in miseria nel villaggio dei genitori».
Lei è stato rinchiuso in un laogai. È vero che in questi lager c'è ancora l’indottrinamento forzato come al tempo di Mao?
«Fui detenuto a Pechino e poi nel Laogai Hunan 2, che si chiamava anche Hunan Heavy Vehicle Manufacturing Factory e che esportava veicoli».
Perché il laogai aveva un doppio nome?
«Molti lager hanno un nome come prigione e uno come impresa commerciale. Il secondo serve a vendere ed esportare manufatti o macchinari senza che appaia la loro origine. Quando il lavoro per i veicoli era poco, producevamo materiale tessile e decorazioni natalizie da esportare in Occidente. La competitività cinese è anche frutto di questa rete di imprese-prigioni. Noi lavoravamo 15-16 ore al giorno, dalle 7 alle 23, e dopo il lavoro dovevamo seguire sessioni di indottrinamenti forzati o di “riforma del pensiero”: servivano a trasformarci in nuovi socialisti».
Quanti laogai ci sono in Cina, secondo lei?
«La Laogai Research Foundation ne ha identificati 1045, ma probabilmente sono di più. Sia il numero dei laogai che il numero dei detenuti è considerato segreto di Stato».
Ma da Tienanmen a oggi le cose non sono migliorate? Progressi ve ne saranno pur stati. Deng Xiaoping introdusse le «quattro modernizzazioni» e criticò il maoismo, per cominciare.
«È la libertà che rimane un’illusione. Voi questo non lo saprete, ma Wei Jingsheng, che chiese la quinta modernizzazione, cioè la democrazia, fu spedito in prigione per 15 anni proprio da Deng. Anche la persecuzione delle religioni, delle minoranze, di ogni dissenso, le esecuzioni pubbliche e la vendita degli organi, sono ricominciate come prima. Deng Xiaoping sostituì “diventare ricchi è glorioso” al maoista “servire il popolo”».
Ma per la gente comune si sarà verificato un miglioramento economico.
«Solo per quel 20 per cento della popolazione che vive nelle grandi città e che spesso è collegata al Partito. È una percentuale che fa soldi sulla pelle e sul sangue degli altri».
Neanche i diritti civili sono migliorati, come sostengono viceversa le autorità?
«I diritti umani e religiosi sono ancora repressi. I rapporti parlano chiaro: si intensificano la persecuzione delle minoranze tibetane e uighure, la repressione di tutte le religioni, l'accanimento contro i falun gong, gli aborti e le sterilizzazioni forzate, i laogai, le esecuzioni pubbliche, la vendita di organi. Le Madri di Tienanmen, dopo diciotto anni di richieste, non hanno ottenuto neanche un’inchiesta. Quello che voi in Occidente non sembrate voler capire, è che in Cina prospera una dittatura».
Ma non prospera anche una certa resistenza?
«Ogni anno vi sono decine di migliaia di rivolte popolari con centinaia se non migliaia di morti. Si ribellano soprattutto i contadini e i lavoratori espropriati delle loro case e terre. La resistenza si percepisce, ma non è abbastanza forte per i capillari controlli polizieschi rivolti anche contro i cyberdissidenti, dato l’appoggio economico e tecnologico che l’Occidente fornisce al regime».
E l'anno prossimo ci sono le Olimpiadi.
«È scandaloso che un antico simbolo di pace abbia luogo nel più repressivo Paese del mondo. Non fate che foraggiare i nostri aguzzini, in questo modo temo che sappiate poco dell'impatto reale del maoismo sul popolo cinese: poco dei milioni di internati uccisi nei laogai perché controrivoluzionari; poco sull'invasione e devastazione del Tibet, sulle milioni di vittime della riforma agraria, sui trenta milioni di morti del “grande balzo in avanti”, sulla Rivoluzione culturale che ha ucciso e distrutto anima e monumenti della nostra civiltà millenaria.

Almeno cento milioni di persone sono morte in Cina negli ultimi 50 anni a causa del regime comunista, maoista o non maoista. Quello che voi potreste fare è denunciare i crimini e condizionare con il rispetto dei diritti umani gli accordi commerciali: è l'unico linguaggio che ormai in Cina capiscono».
Filippo Facci

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