Cinema e Tv mettono in saldo terroristi e banditi degli anni ’70

L’Italia vista con il cannocchiale è, cinematograficamente parlando, meglio o peggio dell’Italia sott’occhio? Al cinema gli anni Settanta vennero tenuti a battesimo dalla Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri e seppelliti dentro La terrazza di Ettore Scola. Nel mezzo ci fu spazio, fra gli altri, per La classe operaia va in paradiso, Cadaveri eccellenti, Un borghese piccolo piccolo, Ecce bombo, e insomma il decennio fu raccontato in corso d’opera: strategia della tensione e terrorismo, utopia rivoluzionaria e sbornie intellettuali, cinismo e vittimismo. Erano tutti, ciascuno a suo modo, film politici: alcuni molto belli, altri molto meno, sempre e comunque ben recitati. C’era ancora un artigianato di qualità e quei registi avevano avuto grandi maestri come esempio.
Quarant’anni dopo, l’onda del tempo torna a battere sulle medesime rive e c’è solo l’imbarazzo della scelta, visto che nel giro di un paio di stagioni, e limitandosi a qualche titolo, c’è stata la rivisitazione della lotta armata, La Prima linea; il cantico del ’68, Il grande sogno; gli intrecci fra criminalità organizzata e politica, Romanzo criminale, per tacere degli sceneggiati televisivi in cui i Settanta entravano di dritto o di rovescio: evocati, accennati, meditati. Ultimo in ordine di tempo è questo Il sorteggio che mette in scena il primo processo alle Brigate Rosse tenutosi a Torino, mentre sono in progetto un film che racconta le imprese di Renato Vallanzasca, il «bel René» boss della Comasina, e un altro che indaga intorno alla strage di Piazza Fontana, quel terribile 1969 che per molti storici incarna già l’intera decade.
A occhio, verrebbe da dire che si stava meglio quando si stava peggio e che il senno di poi, ovvero il ripensamento critico, magari giova alla storia, ma non all’arte, perché un film è anche, può essere anche, arte cinematografica. Detto più semplicemente, nel secondo elenco non c’è una pellicola che valga la peggiore di quelle del primo. Che magari erano più schematiche, più manichee, ma avevano sangue e anima, mentre qui è tutto un pattinare sul ghiaccio del «bello e maledetto»: glamour, chic e kitsch. Quanto alla recitazione, per carità di patria è meglio tacere.
È tuttavia una risposta parziale, che non esaurisce il tema e si presta a qualche approfondimento. Il primo, all’apparenza stravagante, è che non ci sono più le facce da italiani. Fino agli anni Settanta esistevano ancora e basta una carrellata dal neorealismo a quei titoli all’inizio citati per rendersene conto. Non parlo dei caratteristi, straordinari, parlo proprio di un tipo umano, una facies, che permetteva un’identificazione, ti consentiva di vedere un cambiamento nella continuità: la ricostruzione e il boom, il miracolo economico e la contestazione, il terrorismo e persino il riflusso... Dopo è arrivata la modernità e ha sommerso tutto: siamo divenuti un popolo turco-padano, americo-napoletano, siculo-finnico, senza più un’identità. Magari più bello, più palestrato, ma amorfo, livellato, omogeneo e omogeneizzato. Chi quegli anni li ha vissuti lo sa benissimo ed è per questo che quando ora se li vede riproporre al cinema ha un sussulto di fastidio: non eravamo così, eravamo un’altra cosa. Chi non c’è nato, naturalmente non se ne accorge, ma non riesce nemmeno a capire in cosa, di là degli abiti o del design, fossero differenti dall’oggi. I volti sono gli stessi che vedi nei reality televisivi e l’inquilino di turno della casa del Grande Fratello te lo puoi trovare tranquillamente, mesi dopo, in un film sui Nuclei armati proletari...
Un altro aspetto è legato, come dire, alla moda, nel senso del filone da sfruttare. Nell’Italia che rifletteva su sé stessa in presa diretta, c’era un impegno e una volontà ad agire in tal senso. Questo prestava il fianco al manicheismo o all’ideologizzazione, ma nei casi migliori era il tentativo onesto di esprimere il proprio punto di vista. L’impressione adesso è che ci sia un mercato della memoria che tira e quindi convenga mungerlo. L’importante è vendere più latte possibile, importa poco se va a male in fretta. Ci sono delle eccezioni, certo, ma hanno senso proprio perché confermano la regola.
Naturalmente i Settanta rimangono un decennio formidabile da narrare al cinema. Ma siamo sicuri che i Sessanta, per fare solo un esempio, lo siano di meno? Stranamente però nessuno pensa a ri-raccontarli: da un lato perché schiacciato da quella commedia all’italiana che li firmò in progress, dall’altro perché qui il senso di alterità rispetto al reale sarebbe ancora più evidente e incolmabile.
Ripercorrere la propria storia non è mai facile e ancor meno lo è per un Paese come il nostro dove la memoria funziona poco e male. È un esercizio doveroso, ma è anche un esercizio faticoso. Quando Visconti girava Senso, si lamentò con i costumisti perché non avendo letto Stendhal non sapevano che nell’Ottocento, all’opera, gli uomini entravano in platea con il cilindro, ci buttavano dentro i guanti e lo usavano a mo’ di secchiello...

Quando vedo un film d’oggi sugli anni Settanta, c’è sempre un’automobile che all’epoca non era ancora in produzione, un capo d’abbigliamento incongruo, un interno borghese sbagliato... Sono girati all’italiana. Nel senso negativo del termine.

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