«Il cinema? No, preferisco il teatro»

Dal teatro al cinema al teatro. Anna Bonaiuto, mezza napoletana e mezza friulana, è un’attrice completa ma resta fedele al primo amore, il palcoscenico. Reduce da una brutta influenza, questa sera calcherà quello del Franco Parenti per la prima nazionale del «Dio della carneficina», commedia scritta da Yasmina Reza e diretta da Roberto Andò. Al suo fianco, un cast da Palma d’oro: Silvio Orlando, Alessio Boni e Michela Cescon. Nella pièce interpreta il ruolo di Veronica, protagonista di un dialogo tra due coppie di genitori che si incontrano per risolvere con civiltà una grana tra i figli adolescenti. Ma l’intenzione adulta metterà tragicamente a nudo ipocrisie e piccole miserie della borghesia contemporanea.
Il suo ruolo, nella commedia che in Francia ha spopolato, era interpretato da Isabelle Huppert. Un confronto che le fa piacere o la disturba?
«Non mi fa né caldo né freddo. La Huppert è una straordinaria attrice di cinema che ha recitato in una commedia, mentre io vengo dal palcoscenico. I problemi me li sarei dovuti casomai porre nei confronti di Eleonora Duse quando ho interpretato l’Hedda Gabler di Ibsen... No, noi attori certi complessi non ce li possiamo permettere».
Il «Dio della carneficina» è una commedia amara e per certi versi spietata, ma pur sempre una commedia. Lei, diretta da Cecchi, Martone o Servillo, ha interpretato molti ruoli drammatici. Preferisce far ridere o emozionare il pubblico?
«Io, sia nella vita sia anche come spettatrice, ho sempre benedetto chi mi fa ridere e per questo ho adorato Totò e Jerry Lewis. Come attrice la risata ti gratifica forse più dell’applauso perché è immediata, è fisica. Ma bisogna stare attenti a non darsi in pasto al pubblico perché alla fine a fare la differenza è sempre l’intensità del tuo personaggio».
Dall’eduardiana Rosa di «Sabato, domenica e lunedì» ad Anna di «Morte di un matematico napoletano», lei ha spesso interpretato donne del sud. Sono i ruoli che le calzano meglio?
«Diciamo che sono le donne che conosco meglio, che ho nel mio Dna. Il nostro è un lavoro che va fatto in modo totale, in cui si raccontano la vita e i suoi conflitti se li si è conosciuti sulla propria pelle. Altrimenti sono parole vuote».
Sia nel teatro che nel cinema ha ricevuto successi e riconoscimenti. Penso all’«Amore molesto» di Martone, al «Postino» con Noiret e Troisi, alle «False confidenze» con Servillo. C’è un personaggio a cui si sente più legata emotivamente?
«I ricordi migliori non riguardano i titoli ma casomai i registi o le persone con cui si sono creati i migliori gruppi di lavoro».
Faccia un esempio.
«Beh, direi che tra tutti Toni Servillo è la figura a cui oggi mi sento professionalmente più legata, un uomo profondamente innamorato del suo lavoro e che si è costruito da solo con una grande serietà. Le costruzioni fatte lentamente sono quelle che hanno le fondamenta più solide e Toni riesce a infondere questa sua sicurezza a un intero gruppo».
Un maestro insomma. Il teatro italiano ha ancora buoni maestri e buone scuole secondo lei?
«Direi di sì, ma di una cosa sono convinta: i migliori registi sono quelli nati come attori o che comunque hanno recitato. Penso a Ronconi o a Strehler, ma anche a Carlo Cecchi e allo stesso Servillo. Quanto alle scuole, ce ne sono ancora di valide, ma anche tanti ciarlatani che illudono i giovani che vogliono fare teatro».
Nel cast del Dio della carneficina ci sono nomi noti anche del cinema e della tv. Quanto conta questo fattore per il successo di una produzione teatrale?
«Mah, bisognerebbe chiederlo ai produttori... È un problema che non mi sono mai posta e tuttora preferisco il teatro al cinema anche se paga meno in termini di successo e denaro.

Gli attori di questo gruppo, poi, nascono dal teatro. Quanto agli specchietti per le allodole, non sottovaluterei l’intelligenza del pubblico, che sa distinguere il buon teatro da quello scadente e sa, il primo, dove andarlo a cercare».

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