Il film del weekend

"The Fabelmans", il film in cui Spielberg racconta se stesso

Spielberg si cimenta nella storia romanzata della propria giovinezza e dà alle sale un biopic che riflette sul potere del mezzo cinematografico, una lettera d’amore alla vita e alla settima arte

“The Fabelmans”: il film più personale di Spielberg, non il più bello

The Fabelmans è senza dubbio quel che si dice un film evento. Un po’ perché porta la firma dell’immenso “racconta storie” (sembra alludervi anche il titolo) che è Steven Spielberg, un po’ perché mai prima d’ora questo cineasta aveva messo su schermo in maniera così diretta tanta parte del suo passato familiare e della nascita del suo sacro fuoco per la regia cinematografica.

Se quindi vi sentite in debito di emozioni con Spielberg, vi farà forse piacere avere in “The Fabelmans” l’occasione di sentirlo vicino come non mai, quasi fosse un amico in vena di confessioni. Spielberg nel film infatti ha il coraggio di guardarsi indietro, di ricostruire la sua infanzia e adolescenza e di rivelare il significato più profondo che il cinema ha avuto nella sua vita, vale a dire quello di lenire ferite personali, dare una parvenza di controllo sulla realtà e, all’occorrenza, trasfigurarla a piacimento.

Sammy Fabelmans ha cinque anni quando i suoi genitori Burt (Paul Dano), ingegnere informatico, e Mitzi (Michelle Williams), una pianista classica, lo portano per la prima volta al cinema. Vedere "The Greatest Show on Earth" di Cecil B. DeMille colpisce profondamente il piccolo, al punto da fargli desiderare di filmare con la cinepresa paterna una versione casalinga della scena dell’incidente ferroviario presente nel film. Usare il trenino giocattolo avuto in regalo sarà per lui il primo di una serie di esperimenti fai-da-te in cui mettere alla prova ingegno e creatività.

Ritroviamo poi Sam ragazzo (interpretato da Gabriel LaBelle), trasferitosi con i suoi in un quartiere dell'Arizona, che continua a fare film, scontrandosi a scuola con il bullismo e l’antisemitismo. Mentre sogna di avere una carriera a Hollywood, coglie i primi cedimenti di quella che sembrava la famiglia perfetta, fino al precipitare degli eventi.

“The Fabelmans” è un lungometraggio che offre uno sguardo nostalgico, intimo e rivelatore su eventi personali ma che hanno una loro universalità. Con profondità e misura, Spielberg fa i conti con la propria storia, una storia capace di parlare al grande pubblico.

Ci sono passaggi ironici e altri commoventi in questa narrazione che parla di crescita e accettazione ma anche di solitudine e innocenza perduta.

E poi c’è il racconto di come nasce un amore viscerale che diventa missione di vita, quello per il cinema. Dalla scena in cui il piccolo Sammy sbarra gli occhi ricevendo l’imprinting alla meraviglia nel buio della sala cinematografica a quando proietta le prime immagini autenticamente sue sulle proprie mani, fino al minuzioso lavoro artigianale del montaggio in cui da ragazzino lo vediamo cimentarsi quasi fosse un novello alchimista. Tutto è orientato a svelare come la magia del cinema nasca da due componenti, testa e cuore. Da questo punto di vista, essendo figlio di un genio informatico e di una artista, Spielberg (o meglio il suo alter ego), ha nel DNA l’inclinazione ad eccellere sia in termini tecnici che artistici. La sua missione, assunta con piglio scientifico e responsabilità, è quella di dare corpo alla poesia e ai sogni con mestiere, attraverso regole e trucchi (memorabile quello svelatogli da David Lynch nei panni di John Ford nel finale).

Il mondo di celluloide non è solo un rifugio ma un luogo sorgivo. L’incontro di talento e abnegazione fa sì che Sam/Spielberg possa creare sequenze di immagini che una volta proiettate hanno il potere di ipnotizzare, cambiare, confortare, manipolare chi le guarda.

Il protagonista del film è il primo a restare interdetto dalle differenti e molteplici conseguenze che può avere una proiezione. Il cinema è affabulazione laddove può dar vita a fenomeni come il divismo, cambiare i rapporti tra realtà e finzione, scoprire verità taciute e crearne di nuove.

Sono queste le scene in cui “The Fabelmans” affascina, mentre tutte le dinamiche familiari con il padre devoto fino al parossismo a una moglie instabile e irrequieta onestamente prestano spesso il fianco a sentimentalismo e pedanteria.

Il film è una sorta di intervista silente a qualcuno che ha fatto la storia del cinema.

Conosciamo il regista che si autoritrae nell’atto creativo, il che è impagabile, eppure paradossalmente mettere in scena la decostruzione della magia fa sì che proprio questa sia un'opera in cui l’incantesimo non si compie appieno.

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