"Il primo giorno della mia vita" tra male di vivere e speranza di felicità

Il film di Paolo Genovese è un racconto edificante che parla di depressione, suicidio e seconde occasioni; una riflessione necessaria e preziosa sul perché valga la pena andare avanti

"Il primo giorno della mia vita" tra male di vivere e speranza di felicità

Con “Il primo giorno della mia vita” Paolo Genovese porta sullo schermo il suo omonimo romanzo, pubblicato nel 2018, spostandone l’ambientazione da New York a Roma.

Si tratta di una riflessione su un tema delicatissimo come quello del suicidio ma anche sul libero arbitrio e sul potere salvifico di relativizzare l’insostenibilità del presente. Un film dalla bellezza profonda che promuove le seconde possibilità. Allo spettatore però è richiesto di mettersi in vero e ricettivo ascolto di una sceneggiatura asciutta e magistrale, che non lascia nulla al caso e non si perde in parole inutili e retorica.

Impegnato nei temi e crepuscolare nell’ambientazione, “Il primo giorno della mia vita” racconta di come in una Roma straniante e anonima, perennemente battuta dalla pioggia, quattro perfetti sconosciuti decidono di suicidarsi. Emilia (Sara Serraiocco) è una ginnasta finita sulla sedia a rotelle dopo una carriera da eterna seconda; Arianna (Margherita Buy) è una poliziotta che non si è più ripresa dalla perdita della figlia sedicenne; Daniele (Gabriele Cristini) è un piccolo youtuber diventato famoso mangiando enormi quantità di cibo nonostante sia diabetico; infine Napoleone (Valerio Mastandrea) è un life-coach, un guru tra i motivatori di mestiere, che aiuta gli altri a guardare alla vita con fiducia ma non riesce ad aiutare se stesso. Ognuno di loro ha un modo diverso di farla finita: chi da un ponte, chi dal cornicione di un palazzo, chi in automobile con una pistola premuta sotto al mento, chi nella propria cameretta con un vassoio di ciambelle atto a portare la glicemia alla soglia mortale.

Non sanno però che ad aspettarli c'è una specie di "traghettatore di anime" (Toni Servillo) che ha il compito di dare loro una seconda opportunità, vale a dire una settimana di tempo per re-innamorarsi della vita. Giorno dopo giorno l’uomo usa stratagemmi perché i quattro possano avere una nuova prospettiva sui propri drammi. Prima mostra la reazione di amici e parenti alla loro dipartita, poi proietta in un cinema abbandonato frammenti di un futuro possibile, infine instilla la nostalgia della felicità. Tra la riscoperta di piccole gioie come quella di uno spaghetto in riva al mare e la creazione di una rete di sostegno, può darsi che per qualcuno quello che doveva essere l’ultimo giorno della vita possa essere il primo di una nuova esistenza.

Paolo Genovese ripropone le atmosfere metafisiche di “The Place” in una capitale fatiscente e quasi distopica, il cui grigiore riflette lo stato d’animo di coloro che si trovano a deambularci dentro senza essere «né morti, né vivi, sospesi nel tempo».

“Il primo giorno della mia vita” ha la rara capacità chirurgica di colpire dove serve, proponendo personaggi che hanno avuto disgrazie diverse e che diventano quindi ognuno l’archetipo dolente di menomazioni (fisiche o emotive) dalle sfumature infinite.

Per qualcuno sono le aspettative ad aver divorato la serenità, non importa se proprie o genitoriali o altro. C’è poi chi si identifica con la propria produttività, vittima di un sistema che ragiona oramai in termini di successo dando però alla parola un significato tossico. C’è chi si identifica con lo strazio della perdita e nel momento in cui sente affievolirsi la sofferenza teme di lasciar andare la parte più preziosa di sé (“Il tempo porta via il dolore purtroppo; ho perso mia figlia, non voglio perdere altro di lei”).

Che tra loro sia più a rischio proprio chi non avrebbe un reale motivo di scoramento ci ricorda quanto il buio endogeno sia il veleno peggiore, un cancro dell’anima che può in alcuni casi non lasciare scampo. Mastandrea è bravissimo in questo senso nel porgerci un Napoleone in grado di salvare l’esistenza di tantissime persone, eppure in panne quando si tratta di trovare un barlume di speranza per sé. Le metastasi del male oscuro nel suo caso sono ovunque, le tenebre sono in circolo e anche la notizia più bella del mondo rischia di arrivare tardi a cambiare le cose. Non trovando propulsione interiore a lucere, quel che di buono può ricevere dall’esterno gli appare accanimento terapeutico. Come e più dei compagni di limbo, è un essere laconico, disincantato in maniera cinica e lucida. Incarna l’annichilimento di chi, essendosi perso, non ha apparentemente più niente da perdere e nulla da cercare.

Questi disillusi dalla vita che hanno toccato il fondo e hanno deciso di farla finita si muovono in ambienti che hanno il fascino dolente da “death in progress”, come recita l’adesivo sulla carrozzina dell'ex atleta: l’hotel fatiscente, il cinema abbandonato, la specie di trabucco in area industriale.

Alcune scene de "Il primo giorno della mia vita" dicono tutto con poco, come quella della vista notturna di Roma dall’alto, in cui viene mostrata l’incidenza rara e volatile dell’avere la gioia nel cuore.

Paolo Genovese e i suoi co-sceneggiatori (Paolo Costella, Rolando Ravello e Isabella Aguilar) hanno scritto dialoghi soppesati col bilancino. Le frasi brevi, traboccanti di significato, pronunciate con poca enfasi eppure altisonanti, sono tutt’altro che artificiose; è vero che rendono forse meno gratuita l’empatia nei confronti di chi le declama, ma servono a mostrare la freddezza distaccata di chi è andato oltre la disperazione, toccando il punto di non ritorno: quello del miscuglio di abulia e anedonia di quando non t’importa di nulla e di conseguenza non hai nulla da perdere.

“Il primo giorno della mia vita” indica le cose che possono fare la differenza necessaria a restare sulla soglia dell’abisso interiore senza guardare giù e scegliendo invece di allontanarsene: ad esempio lo scrutarsi ancora un po’ dentro, il mettersi a disposizione di un incontro fortuito e salvifico e, non ultimo, ricordare che nessuno si salva da solo.

Non è purtroppo l’antidoto a un bel niente questo film, anzi è onestamente rassegnato a testimoniare come non si possa arginare l'oscurità quando

ha preso troppo piede e come ci siano perdite destinate a non conoscere risarcimento. Ma è l'opera di Paolo Genovese più matura, introspettiva e anche utile nel senso più alto del termine, quella di cui essergli più grati.

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