
«Come possiamo tornare in casa nostra?», domanda Lucy Liu al marito (Chris Sullivan) in Presence , il nuovo attesissimo film di Steven Soderbergh, appena uscito. Noi spettatori entriamo a far parte del mistero che abita quella casa, ma non solo: siamo anche testimoni di un’opera realizzata con una tecnica sperimentale che lascia ammirati. Il film inizia con un unico piano sequenza, nel buio di una casa vuota e svestita di quasi tutto se non per uno specchio di cui la medium dice «gli specchi vecchi sono meglio di quelli nuovi, sono come gli anziani, hanno visto più cose».
Cosa ci fa una medium nella casa della famiglia Payne? È venuta a verificare se effettivamente c’è una presenza. Perché la figlia (Chloe) la sente. Quando Cece, l’agente immobiliare, ha mostrato la casa ai quattro membri della famiglia, la madre Rebekah (Lucy Liu) se n’è innamorata subito, ma presto qualcosa non torna. Chloe - da poco vittima di una tragedia che le ha tolto la sua migliore amica - avverte qualcosa che si aggira per casa. Il fratello (Tyler) pensa che si sia bevuta il cervello con qualche droga, la madre non le crede, il padre invece si dimostra più sensibile, la vuole aiutare.
Tutto il film è in soggettiva, per tutta la durata dell’ultimo abilissimo lavoro del regista statunitense premio Oscar (Miglior regia per Traffic nel 2001) noi seguiamo il punto di vista della presenza che si aggira per casa, si sposta in tutti gli ambienti, sale e scende le scale, spia dappertutto, scruta ovunque nelle vite dei personaggi. Sposta anche gli oggetti. Si nasconde dentro un armadio e tiene lo sguardo puntato su Chloe che - nel tentativo di guarire dalla perdita ancora fresca - crede che si tratti del fantasma di Nadia: l’amica morta in qualche modo cerca ancora di starle vicino. Non l’ha abbandonata.
Soderbergh, come prima cosa ci mostra una famiglia apparentemente perfetta, che in realtà nasconde delle spaccature notevoli: i due coniugi sono distanti più che mai, a tratti non sembrano neppure amici, ma vivono sotto lo stesso tetto. La madre è innamorata del figlio al punto che la figlia quasi non la vede, è come se per lei fosse un’estranea. Il padre invece la adora: «io ti credo», sussurra alla sua ragazza «magnificamente diversa». I due fratelli si detestano. Tyler non fa mai un solo gesto buono nei confronti della sorella. Attraverso lo sguardo della presenza, noi - che assorbiamo completamente la sua unica prospettiva seguiamo le stranezze di un nucleo familiare completamente disfunzionale, l’inganno che non solo appartiene alla nostra epoca, ma riguarda il genere umano,
il modo in cui le persone si aggrappano all’apparenza piuttosto che all’essenza.
Così, questo film considerato un horror, che sembra in verità più un thriller psicologico, gioca sull’assenza per vedere meglio nella presenza. La presenza si fa invisibile e il visibile diventa invece oscuro più che mai. È il caso di sottolineare il genio del regista che da tutta la vita sperimenta con una determinazione esaltante e passa da un genere all’altro donando al suo pubblico una continua analisi sull’umanità, sulla psiche, sui rapporti, sul cinema, utilizzando tutti i mezzi possibili per indagare dentro al mistero che siamo.
Chi non ricorda il suo Erin Brockovich - Forte come la verità
con cui Julia Roberts ha vinto l’Oscar come Miglior attrice protagonista? Chi non ha memoria del successo di Ocean’s Eleven ?
Dunque, Soderbergh è capace di passare da film che hanno planato sull’onda più potente e radiosa di Hollywood, a opere di assoluta singolarità, con una tale originalità che quasi non regge il confronto con altri registi.