In viaggio nella Kabul dei ragazzi cresciuti talebani

Aboozar Amini documenta la vita di tutti i giorni nell’Afghanistan radicalizzato

In viaggio nella Kabul dei ragazzi cresciuti talebani
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da Venezia

Samim è nato e cresciuto in un Afghanistan che, dopo un ventennio di guerre e di occupazione statunitense-occidentale, è ora nel pieno controllo del governo talebano. Contadino, figlio di contadini, una moglie da cui vorrebbe separarsi, un fratello adolescente, Rafi, che lo adora, e un altro più piccolo, divide il suo tempo fra Kabul, dove è una sorta di miliziano addetto al controllo del traffico, check point, segnalazione di persone sospette, e la casa dei genitori, in un terreno montagnoso, dove aiuta a raccogliere il fieno e si occupa del poco bestiame. Il padre è anziano e, per sua stessa ammissione, i figli sono la benedizione che Allah gli ha mandato in terra: senza di loro, non ce la farebbe ad andare avanti. Samim lo sa, ma sa anche che quella non è la vita che vorrebbe: ha una moto, come ce l’aveva il mullah Omar, ha un kalashnikov, sogna il martirio, la guerra santa, la sconfitta definitiva dell’«impero del Male», ovvero degli Usa, atei e senza morale, e che dall’Afghanistan hanno dovuto sloggiare...

Piccoli talebani crescono si potrebbe anche titolare il film, di Aboozar Amini, presentato ieri fuori concorso e che per titolo ha invece Kabul Between Prayers, tanto per Samim, ma non solo per lui, la vita cittadina in senso lato è scandita dalle preghiere e dalla recita del Corano... Sorta di medioevo meccanizzato, dove i cellulari e la tecnologia convivono con le madrase, le esercitazioni di tiro e le preghiere collettive, l’Afghanistan che Samim racconta al più giovane Rafi è il Paese dell’onore maschile e della guerra, della morte possibilmente in battaglia, ma anche dell’etica del kamikaze, il martire suicida che si fa esplodere per la causa. E tuttavia, sia Samim sia Rafi hanno le loro passioni segrete, non belliche, ma sentimentali: una nuova ragazza per il primo, che dopotutto ha appena 23 anni, una “ragazzina” per il secondo.

Di questo mondo radicalizzato quanto segnato da decenni di conflitti, Aboozar Amini cerca di cogliere, proprio nella figura del quattordicenne Rafi la confusione di un’età in cui ancora si può giocare a moscacieca ed arrossire per pudore e però ci si ritrova poi fra le mani un fucile...

«Non mi piacciono i cliché- dice il regista- tantomeno l’esotismo con cui l’Afghanistan viene spesso raccontato. Inoltre, appartenendo all’etnia azera, so cosa voglia dire la repressione del regime talebano... Quello che però cerco di raccontare nel film, senza giudicare, è il compito che attende questo Paese nel futuro, ovvero una ricostruzione tanto più difficile in quanto un’educazione al fanatismo, quale è stata per vent’anni e passa quella messa in opera, finisce per lasciare poco o nessuno spazio a una normalità quotidiana”.

A distanza di 4 anni dal ritiro americano su cui vennero versati fiumi d’inchiostro, l’Afghanistan è scomparso dai notiziari occidentali e solo il terremoto dei giorni scorsi lo

ha riportato per un attimo alla ribalta. «Il mio film- conclude Amini- non è un invito alle superpotenze a intervenire, ma un tentativo di comprendere l’umanità che può ancora esistere dietro la radicalità delle scelte».

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