Gli piaceva il passato. Se avesse potuto usare «la macchina del tempo», non se ne sarebbe servito per esplorare il futuro, «la più orribile delle prospettive», ma per scivolare gentilmente indietro nei secoli, «il più squisito piacere che io possa immaginare». Nato agli inizi del Novecento, a diciott’anni Evelyn Waugh era già infelice, emblema di una «generazione infelice» di cui, crescendo, sarebbe stato la voce più significativa. Erano infelici, scrisse nell’ultimo editoriale di The Magazine, il giornale del suo liceo, perché vedevano le cose con chiarezza: la Prima guerra mondiale come la fine di un mondo e la perdita di ogni illusione. The old men, i vecchi, avevano rovinato ogni cosa e non restava che ridere di tutto e di tutti, il cinismo ironico come unica arma, l’infelicità e quindi la noia delle istituzioni, delle ipocrisie sociali, dei conformismi professionali, affrontata con il sarcasmo intelligente di chi non dimentica e non perdona.
Rimase così fedele a quel manifesto d’intenti che cominciò a morire il giorno che, incautamente, un’amica gli disse che agli occhi di molti era divenuto noioso. Aveva cinquantacinque anni e nell’arco della sua vita lo avevano accusato di essere snob, arrampicatore sociale, misantropo, misogino, sadico, alcolizzato, psicopatico, cinico, naturalmente... Ma noioso non glielo aveva detto mai nessuno e non riusciva a farsene una ragione. «È stato per me un fatto traumatico. Certo, tutti siamo noiosi per qualcuno, ma ne siamo consapevoli. Il punto cruciale è quando non ci se ne rende più conto e questo significa che non ne vieni più fuori». Un infarto se lo portò via qualche anno dopo, nel 1966.
«È un giorno perso quello in cui non si è riso» era inciso sulla meridiana in bronzo del giardino di Madreasfield, la dimora in stile gotico dei Lygon, l’aristocratica dinastia che Waugh immortalò e trasfigurò in Ritorno a Brideshead, per molti il suo capolavoro. Era un monito impegnativo, tenuto conto che l’allora capofamiglia Lord Beauchamp venne costretto all’esilio per risparmiargli uno scandalo - con tanto di processo e sicura condanna - legato ai suoi gusti omosessuali; che la maggioranza dei figli si schierò con il padre e ruppe con la madre; che il suo secondogenito Ugh morì alcolizzato, che le due ragazze più piccole rimasero zitelle e che nel giro di una generazione si spense il sole su un nome che aveva molti secoli di storia e di annessa nobiltà. Eppure, scriverà Christopher Sykes, che di Waugh fu il primo biografo e dei Lygon un amico, «erano di quelli che, anche di fronte a una catastrofe, non perdevano mai il loro sense of humour. È lo spirito raro che le persone molto superficiali scambiano per frivolo». Era invece un strumento di sopravvivenza, lo stesso che Waugh usava contro il mondo esterno e non sorprende che a Oxford lo studente borghese Evelyn facesse breccia nell’aristocratico mondo dei Lygon. Parlavano la stessa lingua.
Naturalmente, Waugh non è Wodehouse, è uno scrittore satirico, non un umorista. Il mondo di quest’ultimo, i suoi Jeeves, i suoi Bertie Wooster e Bingo Little, i nobili inetti e le nobildonne arcigne raccontavano un’aristocrazia tanto bambinesca quanto imperturbabile nella sua immutabilità, innocente e innocua, laddove il mondo dell’altro era attraversato dallo spirito del tempo. Non c’è mai la tragedia nei romanzi di Wodehouse: al massimo ci si interroga sul rapimento di una scrofa... Quelli di Waugh sono un catalogo tragico della miseria umana.
Un luogo comune vuole che Waugh fosse uno snob, nel senso di un arrampicatore sociale attratto da un modo di vivere e di essere che non era il suo e che ritrasse spietatamente proprio perché, nonostante tutti gli sforzi, mai lo sarebbe stato. Ma per capirne veramente la complessa psicologia bisogna ripartire da quella triade giovinezza-amicizia-ironia che abbiamo fin qui soltanto accennato e che Paula Byrne mette bene in luce nel suo Mad World. Evelyn Waugh and the secrets of Brideshead (Harper Press, pagg. 368, 25 sterline).
Fra i libri di Waugh Ritorno a Brideshead (di cui quest’anno è uscita una riduzione cinematografica per la regia di Julian Jarrold, con Matthew Goode e Emma Thompson, che non eguaglia però quella per la televisione inglese di vent’anni prima con Jeremy Irons) è insieme un punto di arrivo e uno spartiacque, intessuto dello stesso materiale dei romanzi precedenti, l’ottusità della classe media, l’irresponsabilità di quella aristocratica, l’arrivismo con i suoi compromessi e i suoi fallimenti, il filisteismo feroce e l’estetismo vacuo, eppure è un’elegia e non una denuncia, un omaggio e non un rimprovero, un rimpianto e non una derisione. Scritto negli anni della Seconda guerra mondiale era il saluto commosso, ma a ciglio asciutto, a un mondo che alla guerra non sarebbe sopravvissuto e a una giovinezza che la guerra avrebbe seppellito per sempre. «Racconta di gente ricca, bellissima e ben nata che non ha problemi se non quelli che essa stessa si procura e questi sono principalmente i demoni del sesso e dell’alcol, che dopotutto sono semplici da sopportare, visti i tempi attuali». Nel rielaborare liberamente la vita dei Lygon, Waugh vi intrecciava la propria e quella di una certa Inghilterra di cui era stato parte in causa: studente a Oxford, segretario dell’universitario «Club degli Ipocriti», omosessuale per il gusto di stupire e di differenziarsi, allo stesso modo di chi preferiva la musica atonale e il cubismo in pittura, membro di una consorteria che aveva un proprio codice semantico, etico, estetico. Un’altra «classe sociale», una comunione di anime: minoritaria, ma a suo modo inespugnabile.
Durante la guerra, Waugh si illuderà di poter trasportare questi sentimenti sotto le armi, nei corpi speciali nei quali si era arruolato, e l’amarezza e per certi versi il disprezzo che percorre l’intera trilogia bellica di La spada dell’onore (Guanda l’ha appena ripubblicata: Uomini alle armi, Ufficiali e gentiluomini, Resa incondizionata) racconta invece una storia diversa: la perdita dell’innocenza, la consapevolezza che l’onore e il coraggio sono spesso parole vuote, l’accorgersi che il cinismo può mascherare il nulla del proprio tornaconto.
Nel tempo, anche «l’Arcadia moderna» di Ritorno a Brideshead gli sarebbe
apparsa pomposa, melodrammatica, noiosa, in una parola, lui che, appunto, noioso non era mai stato... Avrebbe dovuto capire allora, da quel giudizio sbagliato, che noioso lo stava diventando. Per gli altri, per se stesso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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