
Appena si accenna alla letteratura russa si parla di quella classica dell'Ottocento, si cita Dostoevskij e subito qualcuno tira fuori Tolstoj, in pratica è impossibile in una conversazione su uno dei due che in un baleno non appaia anche l'altro. Poi, se si sconfina nel Novecento, ecco Majakovskij e magari Solzenicyn, ma sempre meno. Limonov, tra i più recenti, se non fosse per Carrère non ne avremmo sentito parlare. Invece i russi continuano a scrivere e a produrre buoni libri, un esempio dei quali è Ciao, Saa! (Voland, pagg. 192, euro 18, traduzione e cura di Valentina Colafati) di Dmitrij Danilov, un autore nato nel 1969, oggi piuttosto noto a livello internazionale.
Un libro che fa davvero riflettere, attraverso l'arma dell'ironia, dell'umorismo, della comicità. Siamo a Mosca, all'incirca ai nostri giorni, ma in una realtà distopica, dove un professore di filologia, Sergej Petrovi, per aver avuto un rapporto consensuale con un'allieva di vent'anni (considerata minorenne) riceve la pena di morte. Senonché, non c'è un termine prefissato per l'esecuzione, la quale potrebbe avvenire l'indomani o fra decenni o perfino mai, nell'eventualità che il condannato perisca per cause naturali, sia pure in tarda età. Difficile immaginare una crudeltà più raffinata, un esercizio più accurato dell'arbitrio. Eppure la metafora è sotto i nostri occhi, perfino banale: non siamo forse tutti nelle stesse condizioni in attesa della fine?
Avere una spada, in questo caso un'arma da fuoco, di Damocle è la condizione quotidiana di Sergej; ospitato in un edificio più che dignitoso, con una cella che sembra una stanza d'albergo, tutte le mattine, dopo un'abbondante e gustosa colazione, è costretto a passare per un corridoio dove una mitragliatrice, chiamata addirittura affettuosamente Saa, è pronta a sparare e a ridurlo a brandelli. Finché questo non avverrà, lui prosegue ogni giorno fino a un bel giardino con vista su Mosca, dove altri condannati non parlano né fra loro né con lui. L'evasione è a portata di mano, e non viene punita se non con una nuova, inevitabile cattura. Eppure è proprio la libertà a mancare; la libertà di non pensare alla morte.
Il fulcro della condizione psicologica di Sergej, la misura dell'efferatezza di quella sproporzionata punizione sta nel fatto che i collegamenti con l'esterno s'indeboliscono; e non perché gli siano impediti, anzi. Può telefonare quando vuole, ha persino un computer e un collegamento Internet a disposizione. Può crearsi profili social e intervenire, discutere con i follower e i commentatori, sostenitori e detrattori. Ma a che scopo? In un certo senso, lui è già morto. Sua moglie non ha alcuna speranza di ricongiungersi con lui, idem la madre. Costretto in questo limbo d'angoscia, il protagonista è un fantasma vivente. Le guardie lo trattano con grande umanità, però non è loro concesso di dargli confidenza più di tanto. Lì dentro, non ha amici. Insomma, i presupposti per un libro cupo e deprimente c'erano tutti; e invece l'autore, soprattutto attraverso la maestria dei dialoghi, riesce spesso a farci ridere. Se la comicità è paradosso, qui gli elementi sussistono.
Sergej Petrovic, chiamato con il diminutivo di Sereza, si presenta dunque timidamente negli uffici che si prenderanno carico della sua reclusione. Una burocrazia asciutta, che in termini colloquiali e sbrigativi gli spiega la procedura per il check in. Ha anche la scelta fra tre diverse date, a distanza ravvicinata. Poi viene edotto che "la pena di morte è stata umanizzata il più possibile". O meglio, come spiega un funzionario, "nel nostro paese è stato introdotto il regime di Umanizzazione Totale, nella cui ottica è stata ripristinata la pena di morte. Può anche ridere, farsi beffe della cosa, ma io eviterei, specie lei, nella sua posizione".
Spesso il tono dei dialoghi è surreale, soprattutto quando a visitare l'ospite passano a turno i rappresentanti delle varie religioni, ortodossa, ebraica, islamica, e un seguace buddista. Nessuno cerca davvero di tirarlo dalla sua parte, poiché Sergej non è altro che una causa perduta. Perfino un'avvenente psicologa si rivela svogliata e inutile.
Di fronte a una morte certa, le comunicazioni si riducono a poco. Subentrano le riflessioni. Comunicare con l'esterno non è impossibile, è inutile. Persone che lo amano, altre che moralmente lo sostengono, altre ancora che nutrono indifferenza e in molti casi ostilità e odio, pur non conoscendo di persona il condannato. Serëza ci mette un po' a trovare il baricentro di un equilibrio precario e ansiogeno.
Il libro è diviso in scene, proprio come se fossero quelle di un film; una sceneggiatura che critica talvolta anche se stessa perché deve ricordare al lettore che l'esercizio censorio e quello della fantasia sono decisi e ordinati da lui stesso. Perciò il narratore, ironicamente, qua e là tira dritto, come se certe descrizioni fossero scontate.
L'incertezza temporale della condanna a un certo punto fa sentire Serëza distaccato delle proprie emozioni. Non prova nulla, tutto gli è indifferente, sono mutate le sue circostanze di vita; le sue costruzioni mentali sono aggravate dal simulacro di libertà che gli è concessa, che in fondo è solo un modo per torturarlo di più. Anche quando decide di avventurarsi in una passeggiata per Mosca e nei dintorni è sovrastato dei ricordi di quando percorreva la città con la madre. Tragitti che lo riempivano di grandissimo entusiasmo, ma che ora non ci sono più. Finché va a trovare la moglie Svetlana a casa; e sostiene che a lui non importa nulla della sua situazione.
"Allora? Dove sei stato? Hai salutato la capitale?" "Sveta, sai Quando ti stanno per giustiziare, con una mitragliatrice Ti si sviluppa tutto un altro tipo di gusto e questa robetta da intellettualoidi diventa irrilevante". "Capisco. Ti viene voglia di prostrarti al potere che ti ha condannato a morte".