«Il mondo è un palcoscenico, gli uomini e le donne attori, con le loro uscite e le loro entrate»: sulla vetrata d'ingresso del lounge - date un'azienda a un architetto e vedrete che fine fanno le mense aziendali - della sua piccola cittadella dell'architettura nella Chinatown milanese, Dante Benini ha fatto serigrafare l'incipit di uno dei più famosi monologhi shakespeariani, tratto da Come vi piace. E questo già dice molto della sua poetica architettonica: le persone, le azioni, la vita al centro e l'architettura a sorreggerle, come una quinta armonica, funzionale e misurata sulle esigenze di «entrate» e «uscite». È così che ha conquistato i russi, l'architetto, e prima ancora i milanesi, a cui oggi ha molte cose da dire.
Architetto Benini, lei sta per costruire a Novgorod, quella che è stata battezzata la «Manhattan siberiana». Come ha ottenuto l'incarico?
«Abbiamo vinto il concorso per realizzare venti milioni di metri quadri per mezzo milione di abitanti: era dai tempi degli zar che non veniva commissionato un progetto del genere. Ci siamo riusciti con una serie di idee vincenti: uno skyline non intrusivo ma inserito nell'ambiente naturale delle rive del Volga, la sostenibilità (lo spazio verde sarà tre volte Central Park), la struttura policentrica e, non ultima, la riconoscibilità: la città avrà una sfera in vetro di 120 metri di diametro, illuminata da luce naturale che dovrebbe divenire un polo d'attrazione globale».
La riconoscibilità è diventata un cavallo di battaglia per gli architetti. E non senza critiche: si vedano le torri di CityLife, Santa Giulia, Garibaldi-Repubblica o il Museo d'Arte Contemporanea di Milano...
«L'architettura è un segno dei tempi. A Milano abbiamo avuto architetti riconoscibili come Bramante e Portaluppi. Perché l'architettura contemporanea non dovrebbe fare la sua parte e rappresentare i tempi come in passato? Mezzo secolo di immobilismo non è bastato, ora ci mancava l'ostracismo. Milano non avrà mai Central Park, né la Senna e il Tamigi e non va più sui Navigli. Il grattacielo è un refluo di quel che esiste e se non c'è spazio bisogna salire in verticale per rappresentare qualcosa che cambi l'ambiente e anche la sua economia. La paura è che questi progetti servano solo ad autocelebrare l'archistar che li firma. Ma perché bisogna vivere male in mostri barbari costruiti da architetti non referenziati solo per paura che Renzo Piano e Isozaki si autogratifichino? Nessuno di questi progetti prevarica l'uomo che li vivrà, pur nella loro capacità di lasciare un segno. CityLife è un progetto pulito, rigoroso, ineccepibile, la pagina genetica di quello che Milano deve essere se vuole sopravvivere. Quando sarà finito saranno tutti contenti».
Ma allora perché tutto questo rumore?
«Tenga conto che fino a una ventina di anni fa gli architetti erano persone di buon gusto. L'ignoranza nei confronti dell'architettura contemporanea in Italia è enorme».
Consigli per rimediare?
«La destra, soprattutto a Milano dove si è ricominciato ad aprire cantieri e si attende l'Expo, deve riappropriarsi dell'architettura, alla faccia dei preconcetti della sinistra. Mi piacerebbe incenerire CityLife e farla riprogettare da Gregotti, Boeri, Zucchi: vedrà che tutti diranno che è straordinaria».
Lei però Milano non la lascia...
«Milano manca totalmente di infrastrutture. Tuttavia è solo qui che si fanno i giochi al livello delle grandi capitali europee. Ed è ancora e sempre Milano che meglio rappresenta il costume italiano nel mondo».
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