Una volta gli italiani si facevano quattro risate con Casa Vianello, sit-com a sfondo umoristico sulla bellicosa vita coniugale tra Sandra e Raimondo. Poveri, eroici nonni della televisione: improvvisamente e brutalmente, sono superati. Al passo coi tempi, trionfa il reality. Di Pietro e Mastella, Tonino e Clemente. Non un matrimonio classico e obsoleto, come si ostinano a riproporre Sandra e Raimondo: questa è una convivenza di fatto, fondata su questioni di interesse, senza la minima traccia di slanci romantici e sogni comuni. Con una novità assoluta, rispetto alla sit-com tradizionale: qui litigano sul serio. Tutti i giorni, su qualunque cosa. Tanto che la stessa vita condominiale di governo subisce ciclicamente le scosse telluriche del tumultuoso rapporto. Cos'è questo fragore, si chiedono un giorno sì e un giorno no gli altri inquilini del Palazzo. Niente, lascia stare, sono sempre loro, Clemente e Tonino. Per quieto vivere, tutti fanno finta di non sentire. Fino a quando quei due non finiranno davvero per tirare giù la casa.
Il problema è che come convivenza nasce male: Clemente fa le cose che Tonino ha sempre sognato di fare. Riformare la giustizia italiana. Partendo da questo presupposto geniale, il reality prende subito quota. Basta un'occasione qualunque: volano subito i piatti. L'ultima: intercettazioni Unipol, gip Forleo e tutto quanto il resto. Di Pietro: «Mastella attenta alla Costituzione». Mastella: «Di Pietro attenta al buonsenso». Di Pietro: «Gli mancano i fondamentali del diritto: continuare a infierire su di lui sarebbe come sparare sulla Croce rossa».
Nell'imbarazzo generale degli alleati, una timida voce si alza per implorare un po' di pace: è quella del verde Bonelli. «Si affrontino direttamente, non sui giornali. Per il bene del governo». Parole patetiche. Clemente e Tonino sono in guerra permanente, ma sono anche d'accordissimo su una cosa fondamentale: parafrasando quanto un giorno disse Gianni Agnelli, «quello che fa bene alla Fiat fa bene all'Italia», per i due conviventi quello che non fa bene al governo fa benissimo a loro. Tutti e due devono dimostrare d'essere in questo governo per pura necessità, avendo però poco in comune e poco da spartire con il resto del gruppo. Senza che se lo siano mai detto, perché vivono da separati in casa, adottano nel concreto una strategia comune. Difatti, come in tutte le convivenze esplosive, non si sopportano proprio perché sono troppo simili. Nelle istituzioni come nella corrente elettrica: due cariche uguali si respingono.
Fondamentalmente e intimamente democristiani, minacciano le dimissioni ad ogni canto del gallo, nonostante se ne guardino bene dal procedere. Con il disperato bisogno di visibilità che si ritrovano - tira aria di sbarramento elettorale tra il quattro o il cinque per cento, cioè ben al di sopra delle loro umane possibilità -, approfittano l'uno dell'altro per strappare titoli, interviste, lanci d'agenzia. La storia del contenzioso è lunga e per la verità anche un po' stucchevole. Restando solo agli ultimi mesi: litigano sulla questione giustizia prima del vertice governativo di Caserta, litigano sull'estradizione di Abu Omar, litigano sul caso Sircana. Litigano sull'indulto (Di Pietro: «Ha partorito una manovra salva-corrotti», Mastella: «Quello è devastante per il governo: o la smette, o me ne vado»), litigano sulla rivolta dei magistrati contro la riforma (Di Pietro: «È un inciucio», Mastella: «Nessun inciucio: se vota contro, me ne vado»). A questi ritmi, non potevano certo esimersi dal litigare sul caso Unipol. Ancora una volta, siamo al penultimatum. Mastella: «Scriverò a Prodi, perché non posso essere afflitto dalla lite tra comari con Di Pietro. Come ex democristiano sono abituato a smussare angoli, ma con questo qui è impossibile. Al premier dirò: decidi, se vuoi fare Di Pietro ministro della Giustizia, fallo. Io me ne vado. Non posso continuare così: fare la figura di chi è cretino se non interviene, o di chi provoca la lite se risponde...». Tono apocalittico. Ma già sentita.
Eppure. Sui grandi temi ideali e sui valori della tradizione sono contigui: famiglia, religione, educazione stradale. Anzi, ripetiamolo tranquillamente: sono identici. Li accomuna anche un certo uso spericolato della madrelingua. Di Pietro propone un fai-da-te maccheronico, Mastella cerca di rifarsi alla maestosa tradizione dell'eloquenza campana. In un caso e nell'altro, italiano impubblicabile.
A dividerli sanguinosamente, gira e rigira, è soltanto la solita, insolubile, carognesca questione di fondo: Mastella fa quello che Di Pietro ha sempre sognato di fare. È qui che esplodono le divergenze, è qui che il reality governativo esprime i suoi momenti più alti. Di Pietro concepisce la vita e l'impegno politico come un eterno gioco di guardie e ladri: inutile specificare quale parte del gioco lo diverta. L'altro, Mastella, vive invece un costante impegno cristiano a favore degli ultimi, siano detenuti o inquisiti. Crede così ciecamente nella libertà, che vorrebbe dispensarla a chiunque. Sogna un garantismo equo e solidale per tutti. Diciamolo: un impegno serio e coraggioso. Il Paese, nell'esprimere vivo apprezzamento, resta solo in attesa che un giorno ci siano garanzie anche per gli onesti.
Tonino e Clemente, il simpatico menage. Simboli d'Italia ogni giorno più neri e più lividi. Sfatti l'uno per l'altro. Sembrerebbe evidente, ormai, che il governo sia un luogo troppo piccolo per contenere tutti e due. Non potrebbero stare allo stesso tavolo di un ristorante, o allo stesso bancone di un caffè, o sotto lo stesso ombrellone. Figuriamoci stare nello stesso governo.
Cristiano Gatti
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