Clown e hawaiane. Ma che Turandot è?

Clown e hawaiane. Ma che Turandot è?

«Qui finisce l'opera, perché a questo punto il maestro è morto». Arturo Toscanini congedava così il pubblico alla prima scaligera di Turandot, il 25 aprile del 1926, quando il finale di Franco Alfano ancora non sigillava l'opera incompiuta di Puccini.
Da qui è partita la regia di Henning Brockhaus per la «Turandot» che venerdì sera è andata in scena al Priamar di Savona, inaugurando la stagione estiva dell'Opera Giocosa. Il regista ha allestito una sorta di teatro nel teatro, facendo del dramma pucciniano il nucleo e rivestendolo di un involucro di ambientazione contemporanea.
Ma se l'idea può essere buona, non siamo altrettanto d'accordo sulla realizzazione. Non solo perché siamo convinti che la versione di Toscanini (quella incompiuta) sia ancora la migliore in assoluto, la più rispettosa della sofferta psicologia e sensibilità del Maestro. Ma soprattutto perché, del dramma pucciniano, quella di venerdì sembrava più una caricatura, che a tratti sconfinava nel grottesco.
A partire dal rito civile che unisce Turandot a Calaf in presenza del sindaco e dai quattro becchini che solerti portano via il corpo esanime di Liù; e per non parlare delle danzatrici hawaiane che popolano i sogni proibiti dei tre ministri Ping Pong Pang.
Trovate registiche che non c'entrano con il dramma e che nulla vi aggiungono nella sostanza, ma che soprattutto distraggono il pubblico, affollando il palcoscenico di personaggi più o meno legittimi. Pensiamo in primis al mimo clown, che francamente è di troppo e che per un attimo abbiamo temuto incarnasse Puccini. Speriamo solo di esserci sbagliati.
Uno spettacolo solo da guardare e non da ascoltare, che privilegia l'immagine alla musica e che così facendo snatura, in parte, l'opera lirica.
E proprio sul piano musicale non possiamo essere più generosi, perché l'esecuzione è sembrata poco intensa, a tratti costretta, nonostante la buona volontà del direttore Olivier von Dohnányi; ma forse questo è anche un problema di dispersione di suono (il Priamàr è superbo, ma l'acustica non è ideale) e di infelice (ma obbligata) disposizione dell'orchestra. E il coro, poco consistente numericamente e nemmeno preciso nell'intonazione, non ha retto l'imponenza dello spartito.


Spezziamo una lancia in favore di Liù (Chiara Angella), che ha dimostrato una fine musicalità e un'intensa partecipazione; prova non convincente per Calaf (Kamen Chanev), molto carente nel registro medio- basso e per Turandot (Lisa Livingston), che nonostante i buoni acuti non ha restituito l'intensità del personaggio.
Successo moderato «in platea», con applausi non troppo calorosi e palese perplessità di parte del pubblico.

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