
Nove racconti che si muovono a ritroso, alla ricerca di una felicità perduta, come un diritto che si immaginava universale ma che passo dopo passo viene ricostruito come illusorio, fin dall'inizio. È il disincanto dell'individuo davanti al solco sempre più invadente lasciato sulla linea del tempo dalle masse. I racconti vanno a cercare come tutto questo è iniziato, rincorrendo un filo sottile, con cui fare i conti, personali e con gli altri. Il protagonista, invece, ha sì qualcosa di universale. Si chiama René e incarna tutto ciò che abbiamo trovato e perduto. C'è qualcosa di sinistro nel ridere. Lo sapeva bene Baudelaire, che nel grottesco del comico sentiva un'eco di inferno. Il viaggio umano di Enrico Grandesso è uno specchio opaco, un labirinto di riflessi, dove ogni storia è una maschera, e dietro la maschera c'è un'altra maschera ancora. Gli altri vedono il clown non è solo un titolo: è una sentenza, una diagnosi, una rivelazione. Non siamo mai ciò che sembriamo. O, peggio, siamo esattamente ciò che fingiamo di non essere. Tutto comincia con l'ultimo atto di una sospensione, il momento in cui la stagione del Covid finalmente sta sfumando e il silenzio che fino ad allora pesava su un Veneto sconcertato viene rotto dalle risate di ragazzi e ragazze che tornano nelle strade. È da lì che comincia la fuga interiore di René e l'incrocio con un passato possibile, alternativo, che si specchia nel ricordo di Giulia, seduzione e inganno. Il grande e il piccolo si mischiano, mondo e vita che rimbalzano spesso senza capirsi.
I racconti di Grandesso si muovono con la grazia sinistra di un Pierrot malinconico. Non c'è bisogno di urlare: basta un dettaglio, un inciampo, una frase tagliata a metà per scoprire che sotto il trucco bianco si apre l'abisso. Non è tanto il dramma a interessare l'autore, quanto il momento esatto in cui la realtà deraglia. Il clown, per definizione, è un personaggio pubblico: ride, cade, si rialza. Ma nessuno sa dove vada quando si toglie il naso rosso. Grandesso ci porta lì, nel camerino, nello spogliatoio dell'anima. La scrittura è gentile, insinuante, come un sussurro che non si può ignorare. Ogni racconto è una trappola dolce. Ti fa accomodare, ti offre un caffè, ti racconta una storia normale. Ma poi, da un angolo del testo, esce una crepa, un'ombra, un ghigno. E allora capisci che quello che stavi leggendo non era un semplice aneddoto: era un confessionale capovolto, dove a parlare non è chi si inginocchia, ma chi ascolta in silenzio.
Gli altri vedono il clown (Campanotto editore, pagg. 112, euro 15) è un libro che gioca con la nostra fame di verità, ma non ci dà mai la soddisfazione dell'ultima parola.
Perché forse, alla fine, siamo tutti quel pagliaccio che ride troppo forte, che inciampa con troppa grazia, che nasconde troppo bene le lacrime. E gli altri, quelli che ci guardano da fuori, vedono solo la parte sbagliata della nostra storia. È un libro necessario, perché ogni tanto serve qualcuno che ci ricordi che anche i sorrisi possono fare paura.