L’hanno chiamata «operazione Metallica», perché tre vittime - imprenditori con l’acqua alla gola, finiti nelle grinfie della banda e devastati dai prestiti a strozzo - lavoravano nel settore del ferro. Ma avrebbe dovuto, più letterariamente, chiamarsi «operazione Colpin»: come il protagonista di Notre Dame de Paris di Hugo, nemico giurato della legge e signore della Corte dei miracoli. Perché questa inchiesta della Dia, sfociata in 24 arresti eseguiti all’alba di ieri, racconta che anche nella Milano del 2008 esisteva una Corte dei miracoli. Un luogo dove si intrecciano affari di ogni genere, e dove ad amministrare la legge non sono gli uomini dello Stato ma i loro nemici giurati: gli uomini del crimine. Come il grande Pepé Onorato, boss della ’ndrangheta, tanto vecchio e malato quanto temuto e riverito. O colletti bianchi come Sergio Landonio, uno specialista del riciclaggio passato quasi indenne in mezzo ad avventure, traffici, inchieste. Una coppia micidiale.
La Corte dei miracoli aveva sede in un bar all’angolo tra via Ampere e via Porpora. Il bar si chiama Ebony. Una grande siepe protegge alla vista i tavolini all’aperto. Dentro, altri tavoli. Elegante, discreto. Qui Onorato aveva il suo «ufficio». Un tavolo fisso dove riceveva postulanti, vittime, aspiranti soci. Chi aveva da riscuotere un credito che non riusciva ad incassare con le buone, si rivolgeva a Pepé. Chi aveva un buco di cassa che non poteva colmare rivolgendosi alle banche, chiedeva a Pepé. Il boss ascoltava tutti, e se possibile diceva di sì. Poi, ad occuparsi di riportare a casa i soldi erano i suoi ragazzi. Per chi faceva finta di non capire arrivavano le botte, i sequestri lampo, i capannoni bruciati.
È il ritratto di una città parallela, quello che si legge nelle cinquecento pagine dell’ordine di custodia che riassume due anni di duro lavoro dei cocciuti investigatori della Dia milanese, diretti da Stefano Polo. È una Milano dove affari sporchi e puliti si intrecciano in modo quasi inestricabile, dove la stessa organizzazione - quella di Onorato - può trafficare in carichi di coca trattando direttamente con la Colombia e intanto riciclare nel mercato dell’arte, piazzando quadri veri e plateali croste - autenticate da esperti prezzolati - con la complicità di casa d’aste tanto rinomate quanto compiacenti. Un Modigliani quasi certamente fasullo viene placcato mentre sta per partire verso l’Olanda, già piazzato per otto milioni. Cupi quadri sacri del Seicento spagnolo vengono acquistati e smerciati nonostante siano sulla lista dei «ricercati» dell’Interpol.
É qui, nel riciclaggio in opere d’arte, che la pista e i soldi di Onorato si incrociano con il talento di Sergio Landonio. In certi ambienti, sporchi e puliti, l’antiquario Landonio - si fa chiamare così - è una leggenda. Lui fiuta l’affare ma non rischia mai: è una specie di broker, raccoglie i soldi degli altri e li investe. Allo stesso magistrato che lo fa arrestare ieri, Celestina Gravina, molti anni fa Landonio aveva spiegato: «L’importante è distinguere. Certa gente la puoi zanzare (fregare, ndr). Certa no». Intendeva: non si possono zanzare i Crisafulli, gli Orio, gli Onorato, i boss che da vent’anni mi concedono la loro fiducia. E invece si possono zanzare liberamente i cani sciolti, i deboli, quelli che non sono capaci di fare sul serio né i regolari né i balordi. Si poteva zanzare liberamente uno come Luigi Fasulo, che nelle mani di Landonio aveva visto sparire quasi due milioni, e che - forse perché era disperato, o forse solo perché era distratto - il 18 aprile 2002 andò a infilarsi con il suo piccolo aereo dentro il grattacielo Pirelli.
«Era stato Landonio a rovinare mio padre», disse quattro giorni dopo il disastro il figlio di Fasulo. L’antiquario - casa a Legnano, villa in Costa Azzurra - si riprese in fretta dalla pubblicità negativa. Negli ultimi due anni, i segugi della Dia lo hanno visto lavorare sodo, a contatto di gomito con il vecchio Onorato.
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