Milano - Forse, ci siamo. Questa sera il presidente Romano Pettenati potrebbe leggere la sentenza che deciderà il destino di Annamaria Franzoni. Dopo quasi un anno e mezzo di circumnavigazione fra perizie, psichiatri e macchie di sangue, la Corte d’assise d’appello di Torino è arrivata al momento della scelta. Questa mattina, ultima udienza, toccherà all’avvocato Paola Savio concludere la sua replica alla requisitoria del sostituto Procuratore generale Vittorio Corsi. Poi gli otto giudici, due togati e sei popolari, entreranno in camera di consiglio. Quanto durerà il conclave? Sarà molto breve, secondo le previsioni della vigilia, smentibili per definizione.
Il punto di partenza è la sentenza di primo grado, firmata dal gip Eugenio Gramola: al termine di un processo lampo, condotto col rito abbreviato, Gramola condannò la Franzoni a trent’anni. È da lì che bisogna ripartire. L’appello è stato davvero anomalo: di solito il dibattimento di secondo grado si fa sulle carte scritte, i giudici nemmeno vedono l’imputato e arrivano in fretta ai titoli di coda. Qui tutto il contrario, fin dalla scelta di chiedere una valutazione alla giuria popolare, estromessa in primo grado. La corte ha proceduto a ventaglio: ha riletto riga per riga le intercettazioni ambientali, ha scavato nella psiche della Franzoni, interpellando un nugolo di esperti, è andata a Cogne, in ricognizione, a scrutare la villetta reality. Insomma, ha riesaminato dalle fondamenta l’edificio costruito da Gramola.
I risultati, però, sono contraddittori. I dubbi che aleggiavano sull’aula di Torino non si sono dissolti. Le macchie di sangue rilevate dai carabinieri del Ris sembrano poter inchiodare la Franzoni, ma la difesa contesta duramente le perizie. La personalità della Franzoni, al centro di uno sconcertante catalogo di pareri, resta indecifrabile: è una mamma con la testa sulle spalle ma molti tecnici coltivano il retropensiero che sia malata e qualcuno ha anche dato un nome alla molto presunta sindrome, stato crepuscolare orientato. Alla fine, dopo aver esplorato molte piste, lo stesso Corsi si è ancorato alla discussa sentenza Gramola chiedendo la conferma dei trent’anni.
Ora la parola passa ai giudici. Nei giorni scorsi si sono già svolte cinque o sei precamere di consiglio, si sono confrontate diverse soluzioni, probabilmente è stato raggiunto un qualche accordo.
Circola voce che i giudici si siano concentrati sull’ipotesi di diluire una condanna così severa, mitigandola con la concessione delle attenuanti generiche e forse della seminfermità di mente. Ipotesi che sul pallottoliere della pena potrebbero indicare un numero compreso fra il 15 e il 20. In queste ore si è anche detto che un paio di giudici popolari sarebbero favorevoli all’assoluzione per la più semplice delle ragioni: quella massa di indizi e suggestioni e mezzi indizi non formano tutti insieme una prova certa della colpevolezza. Il processo ha oscillato come un pendolo fra due estremi: non può essere stata che lei, manca la certezza della colpevolezza.
In extremis Corsi le ha anche chiesto di confessare, ma lei ha risposto fra le lacrime: «Non sono stata io. Io non ho ucciso mio figlio». Il caso Cogne resta un mistero italiano. E non sarà questo l’ultimo atto. Comunque vada a finire ci sarà un altro passaggio in Cassazione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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