Alberto Pasolini Zanelli
da Washington
Isolato di fuori, forse, ma «plebiscitato» di dentro. Alvaro Uribe è uscito ben più che vincitore dalle presidenziali in Colombia: in un Paese da sempre difficile è riuscito ad aumentare nettamente il numero dei consensi ricevuti nella sua prima elezione del 2002. Ha sfiorato stavolta i due terzi dei suffragi (62%), superando non solo se stesso ma anche i più favorevoli fra i sondaggi e ottenendo la più alta percentuale di voti nella storia del Paese. Ha allargato lo schieramento dei suoi sostenitori dal suo partito a unarea di una mezza dozzina di formazioni politiche tradizionalmente frammentate. Ha resistito al primo serio tentativo della sinistra democratica di prendere il potere a Bogotà, alle minacce e allattivismo dei guerriglieri marxisti-leninisti del Farc, che per la prima volta avevano partecipato - alla loro maniera - a una campagna elettorale con la parola dordine di «cacciare Uribe». Infine ha pilotato con successo la Colombia e il suo programma contro la corrente di un Sud America che quasi ovunque altrove si sposta verso sinistra. E si è giovato, altre eccezione nellAmerica latina, dellamicizia e dellalleanza con gli Stati Uniti, che altrove è di questi tempi una pietra al collo per i governi. La regione andina, in particolare, ha visto un estremista come Chavez consolidarsi al potere nel Venezuela e un nuovo arrivato fortemente populista come Humala salire alla guida della Bolivia. Il Perù deciderà domenica prossima fra il candidato «rivoluzionario» e uno socialdemocratico e lEquador potrebbe cedere fra qualche mese a una tentazione analoga. La Colombia è sola ma a quanto pare non teme di essere isolata.
Il verdetto delle urne nelle elezioni presidenziali è stato estremamente netto. Uribe è «passato» al primo turno con quasi il triplo dei voti dellavversario più prossimo. Lo ha fatto conducendo una campagna elettorale senza compromessi ma anche senza «provocazioni». Non si è lasciato trascinare nella spirale delle parole estreme e delle contumelie di cui il vicino e rivale Chavez è maestro. Si è attenuto a parole dordine comuni nellAmerica latina di ventanni fa, ma apparentemente in via di rarefazione: «Mano ferma, grande cuore», molto simile alla formula di George Bush, vincente nel 2000 e nel 2004 anche se ora alquanto appannata: «Conservatore con compassione». Ha combattuto la guerriglia con decisione, mostrando disponibilità a trattare per porre fine a una guerra civile ormai quarantennale ma senza cedere sui punti essenziali. È riuscito in buona parte a spegnere o integrare la controguerriglia delle milizie private. Ha mantenuto il suo appoggio a una scelta, quella militare contro il narcotraffico, che nei Paesi vicini è stata ripudiata o almeno messa seriamente in discussione, come hanno dimostrato lelezione di Morales, sindacalista dei «cocaleros» e ladozione di un programma analogo da parte del peruviano Humala. Uribe non ci pensa nemmeno a cavalcare le pulsioni anti Usa di tanti latinoamericani, non ha denunciato il «neoliberismo» anche se non ne ha fatto il proprio cavallo di battaglia, scegliendo invece la preservazione dellordine e la lotta al terrorismo. Pur non essendo esattamente un conservatore, non ha esitato a schierarsi a destra, strappando ai suoi avversari la bandiera del patriottismo. Il tutto senza poter essere definito un uomo politico «popolare». Per molti versi, anzi, egli è lopposto di un capataz o di un caudillo sudamericani. È un uomo austero, di poche parole, molto religioso. Chi lo conosce dice che è totalmente privo di senso dellumorismo. È certo che non sa ballare. Non «viene dal popolo» ma è un ricco proprietario terriero, nel continente dei descamisados è un uomo in doppiopetto. Mentre i candidati alle cariche pubbliche, specialmente in Sud America, affettano di presentarsi in primo luogo come capi di famiglie grandi e concordi, Uribe ha preferito scontrarsi, anche pubblicamente, con i figli su un tema delicato come quello dei rapporti prematrimoniali. Il primogenito convive con la fidanzata, la mamma lo sa e strizza locchio, a papà è meglio non dirlo, «perché altrimenti si arrabbia».
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