La cacciata di Profumo da Unicredit è molto simile a quella che riguarderà Sergio Marchionne da parte della Fiat. Attenzione, non stiamo dando una notizia. Stiamo seguendo un percorso banalmente logico. Un manager non è il proprietario dell’azienda in cui lavora. E gli azionisti, prima o poi, per un motivo o per l’altro,si scocciano dei propri dirigenti, soprattutto se di vertice. Ovviamente, anche i dirigenti fanno della loro mobilità un mantra. Pensate un po’: il diritto del lavoro italiano, che blinda il lavoro e tutela il dipendente come parte sempre e comunque debole, concede la facoltà ai «padroni » di licenziare i propri dirigenti. Insomma, anche la tradizione giuslavorista italiana, non esattamente concepita con i canoni del liberismo, tiene in giusto conto la prerogativa dei proprietari di liquidare i propri vertici. Delle due l’una, dunque. Profumo e Marchionne hanno una strada segnata: o diventano proprietari delle aziende in cui lavorano, o inevitabilmente rischiano di lasciarci le penne (manageriali si intende). Quando si parla di indipendenza dei manager e quando si alimenta il falso mito dell’indipendenza di Profumo, conviene ragionare con i termini della logica e non della passione. Il lavoro di Profumo è stato ben retribuito dai propri azionisti: tra liquidazione e stipendi si è portato a casa un centinaio di milioni di euro. Una tale colossale cifra non è dovuta all’indipendenza di Profumo. Ma al contrario, si giustifica eticamente solo dalla perfetta dipendenza del manager al mandato che gli hanno dato i suoi azionisti. Profumo ha guadagnato tanto perché non era indipendente dai voleri di chi lo pagava. Profumo è diventato milionario perché non era indipendente dalla volontà dei suoi azionisti di riempire i propri conti correnti di milioni di euro ogni anno. Sì, quella «disgustosa merce» che si chiama denaro è ciò per cui ha lavorato Profumo. Il resto sono balle ipocrite. Fino a quando i soci di Unicredit si sono visti recapitare 7 miliardi di euro l’anno (una manovra finanziaria) ovviamente non aprivano bocca: anzi la determinazione del grande capo veniva più che tollerata. Le cose cambiano quando Profumo invece di remunerare i propri soci, chiede loro dieci miliardi di euro. Profumo ha resistito a tante crisi; in 15 anni non ha mai chiuso un trimestre in rosso, ma quando la benzina è finita i suoi lo hanno liquidato. Senza tanti complimenti. Fa parte del gioco. Quaranta milioni valgono bene un preavviso. Alla balla dell’indipendenza, se ne associa un’altra. Più subdola, più minacciosa. L’influenza determinante della politica. Non cadiamo dal pero: una banca con 10mila sportelli, 160mila dipendenti, 1.000 miliardi di attivi in bilancio non vive mica sulla luna. È gestita da un establishment e ha rapporti continui e consustanziali con il potere. Ma le ricostruzioni eccessivamente dietrologiche dell’accaduto fanno ridere. Sono evidentemente figlie di un assurdo «pregiudizio indipendentista », che postula: se un manager è bravo, lo è perché indipendente, e dunque quando viene cacciato è perchè si vuole piegare la sua indipendenza. L’estrema conseguenza di questa visione del mondo, è evidentemente una società di caste: in cui nessuno è dipendente dagli altri, tutti sono sostanzialmente irresponsabili e si risponde solo alla roulette della propria classe sociale di nascita. In questo filo di ragionamento, i responsabili del licenziamento dell’indipendente Profumo sono i poteri forti, della politica e della finanza. Bella storia davvero. I più bravi a raccontarla sono i giornalisti (loro sì indipendenti) della Repubblica . Che prima hanno candidato l’indipendente a diventare dipendente e guidare il Pd e poi ci spiegano che Profumo è stato fatto fuori da Berlusconi e da Cesare Geronzi (che non si capisce in virtù di quale potere, oggi deciderebbe tutto). Ma come? Nel cda di ieri l’unico consigliere a voler mantenere Profumo al suo posto non è stato lo stesso Ligresti che la Repubblica ci ha sempre descritto come sommamente berlusconiano? Ma come? Non è stato un ministro di peso del berlusconismo, come Giulio Tremonti, a far intendere il suo apprezzamento per Profumo e il rischio del buco che avrebbe lasciato? Ma come? I soci tedeschi di Unicredit non erano tra i più accesi a volere estromettere Profumo? Anche loro condizionati da Berlusconi? Repubblica dimentica che Berlusconi dovrebbe essere la barzelletta d’Europa. Evidentemente in tutti i campi, tranne che in casa dei consiglieri tedeschi di Unicredit. Non diciamo scemenze. Se una partita è stata giocata sul futuro della prima banca italiana, a giocarla non è stato certamente il premier. Ci crogioliamo in questa favolosa dimensione dietrologica, quasi psicanalitica, per cui nulla è come appare. Mentre quel che appare è semplice: Profumo non portava a casa più i risultati di un tempo. Ha cambiato nel giro di pochi anni l’organizzazione interna (il che vuol dire posti di lavoro, manager, poteri e interessi) senza grandi discussioni con nessuno dei suoi azionisti. Dopo quindici anni alcuni suoi rapporti personali con i soci e i manager (che ha cambiato alla velocità della luce) si sono deteriorati. Una combinazione astrale perfetta, affinché quei bricconi delle Fondazioni (in effetti un giro di burocrati che tendono a perpetuarsi senza grandi confronti sul merito delle loro azioni), dei soci privati italiani e di quelli stranieri si coalizzassero per cacciare il manager che li ha resi ricchi. Si poteva fare meglio? Sì. Certo. Unicredit è una banca che non può essere governata con il pilota automatico.
Ma da qui a costruire questo psicodramma collettivo su chi ha veramente cacciato Profumo e sui motivi reconditi di tutto ciò, ce ne passa. Ciò non toglie che ora i grandi poteri della finanza italiana dovranno trovare un nuovo assetto che faccia i conti con il venir meno di un peso massimo come Profumo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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