«Il fondamento dellobbligatorietà delle leggi è la giustizia». Questa tesi cara a Sergio Cotta, uno dei maggiori filosofi del diritto italiani, riprende le affermazioni di Max Scheler sulletica materiale dei valori e quelle di Gustav Radbruch che elaborò la celebre formula del torto legale. In altre parole da una legge, sia pur formalmente corretta, può derivare uningiustizia. Radbruch, esponente socialdemocratico, si schierò con la giustizia sostanziale rispetto a quella formale, in unepoca tragica, quando la Germania era schiacciata dalla peggiore dittatura della storia, quella nazista, feroce quanto attenta ai formalismi e ai timbri. Le leggi naziste erano ineccepibili sul piano formale quanto abiette. Il fascismo, quando decise di perseguitare gli ebrei, non lo fece tout court ma si preoccupò di varare delle odiose leggi.
Hans Kelsen, uno dei maggiori giuristi del secolo scorso, ha scritto nel suo saggio su Democrazia e autocrazia: «Democrazia significa che la volontà che è rappresentata nellordinamento giuridico dello Stato è identica alla volontà dei sudditi». In un altro scritto Kelsen ha teorizzato che la democrazia è la forma politica che più si avvicina alla libertà. Il richiamo a Kelsen, fatto a proposito del pasticcio sulle liste elettorali, non è piaciuto al professor Gustavo Zagrebelsky che ha urlato allo scandalo vedendovi una manipolazione del pensiero del giurista austriaco. Kelsen è un formalista, non ci sono dubbi, anche se non privo di incertezze e comunque a favore della partecipazione dei cittadini alla elaborazione delle leggi che essi stessi devono osservare.
Quello che sta accadendo in queste ore, al di la degli esiti e dei tecnicismi, rivela ancora una volta le resistenze di una cultura che stenta a riconoscere lidentità tra popolo e democrazia e intende la democrazia italiana come «tutelata», spesso da oligarchie forti.
Il problema, evidentemente, va spostato sul piano dei valori, magari partendo da quel primato della giustizia su tutto che Papa Ratzinger richiama nellEnciclica Caritas in veritate.
La cosa non potrà piacere ma una vastissima dottrina del diritto occidentale richiama il valore della corrispondenza fra democrazia e sovranità. Una vera democrazia è tale se si fonda sulla sovranità dei cittadini e la libertà. Limportanza di questo rapporto non sfugge a Benedetto Croce mentre Yves Mény e Yves Surel affermano con chiarezza che «la democrazia non può fare a meno del popolo proprio quando ha spinto gli artefatti del costituzionalismo a un grado così alto di raffinatezza».
Non farlo significa aderire a quelle teorie che hanno immaginato una democrazia senza libertà e senza la partecipazione del popolo sovrano, le cosiddette democrazia popolari che lEuropa ha conosciuto sotto il comunismo. Queste espressioni, per decenni, hanno sottinteso un giudizio negativo sul popolo, connotato come unentità immatura, da educare più che da governare. La mai abbandonata presunzione pedagogica di alcune élite egemoniche pronte ad alzare la matita rossa e blu.
La nostra Costituzione repubblicana riconosce il principio di sovranità popolare quale principio fondamentale dellarchitettura istituzionale. Infatti, larticolo 1 recita che «la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Il richiamo alla sovranità popolare è chiaro in altri articoli, soprattutto nellarticolo 48, laddove si sancisce il «diritto di votare» e poi il diritto di essere votato, quello di associazione in partiti politici e di petizione.
Queste riflessioni sono il punto di partenza per domandarsi se l'errore, grave e censurabile, di un singolo, a proposito del pasticcio elettorale, possa pregiudicare il diritto di molti. Il che non significa poter far tutto ma trovare un punto di equilibrio fra rispetto delle norme e giustizia.
Il professor Zagrebelsky che pure in due suoi libri ha fatto lelogio della «mitezza» e quello della «virtù del dubbio», è categorico nelle sue affermazioni.
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