Dice cose moto giuste il ministro Maroni, riferendosi alla violenza negli stadi. Con l'occhio al derby romano e alla successiva guerriglia delle tifoserie, ammette sconsolato che «non si può parlare di lotta alla violenza e vedere in mondovisione un giocatore che esulta (Perrotta) e un altro (Radu) che gli dà un calcio e lo fa cadere. E vedere che chi lo fa non è sanzionato è incredibile. Manda un messaggio devastante ai giovani». Giovani i quali in certi casi sono addirittura educati alla pratica della brutalità: «Spesso il sabato vado a vedere mio figlio piccolo giocare a calcio, e sento genitori che incitano bambini di undici, dodici anni a spaccare le gambe agli avversari in campo». Circostanze che gli fanno concludere: «Bisognerebbe estendere il Daspo (il provvedimento giudiziario che vieta l'accesso alle manifestazioni sportive) a giocatori violenti e genitori che incitano alla violenza».
Roberto Maroni è il miglior ministro degli Interni che abbia avuto l'Italia repubblicana e non sarebbe dunque da lui pensare che la violenza negli stadi si possa estirpare solo con i Daspo o facendo entrare in campo i giocatori per mano a dei bambini in rappresentanza dell'innocenza e degli ideali decoubertiani. E infatti la sua idea, sua di Maroni, era di estendere il Daspo a tutti i tifosi giallorossi e biancocelesti, facendo giocare il derby a porte chiuse. Ben sapendo che anche se i giocatori si fossero comportati in campo come tanti damerini, anche se nessun Radu avesse tirato un calcione - a gioco fermo - a Perrotta, anche se l'arbitro avesse condotto la gara con pugno di ferro in guanto di velluto, anche se a fine partita Francesco Totti invece di volgere i pollici a terra li avesse volti al cielo, al fischio di chiusura gli ultrà avrebbero cominciato a darsele. Perché è cosa nota, è cosa tristemente confermata dai fatti che in occasione di un derby (e non solo) laziali e romanisti non hanno bisogno di un pretesto per menar le mani. Quando un tifoso - finito in manette - si porta appresso coltelli, mazze, accette e altri «oggetti atti ad offendere», non c'è bisogno dello psicologo per capire quali erano le sue intenzioni, uscito di casa per recarsi allo stadio.
Ben vengano dunque i cartellini rossi inflitti ai calciatori per i quali «l'etica è solo un optional e contano solo i soldi», ben vengano i Daspo per gli hooligans de noantri e per i babbi e le mamme che esortano i propri pargoli a spezzar tibie e caviglie, ma il nodo da sciogliere resta quello del tifo allorché muta in odio, in furia distruttrice e non di rado omicida. E allora, come dichiara Maroni, il toro va preso per le corna. Il primo dei quali rappresentato dal rapporto, troppo spesso di sudditanza, tra le società e le «curve», la tifoseria organizzata. Il secondo è la destinazione degli stadi, attualmente nello stato di terra di nessuno. E che si vorrebbe - c'è una legge in discussione in Parlamento - dare in proprietà alle società così che ne garantiscano direttamente la sorveglianza. Prima, durante e dopo la partita.
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