La polemica di queste ore sul Primo Maggio e sull'opportunità, o meno, di tenere aperti gli esercizi commerciali mostra più di un motivo di interesse.
Questa festività dovrebbe porre al centro, in primo luogo, tutti coloro che lavorano: ossia quanti con la propria attività (quale che sia) contribuiscono a fare più bello il mondo, ad alleviare le pene della vita, a moltiplicare le opportunità, i beni, i servizi. Ma a quali lavoratori si pensa? Ovviamente si deve pensare a uomini che operino entro un ordine di libertà, basato sulla libera iniziativa e su contratti volontariamente sottoscritti. È davvero una scoperta di molti secoli fa quella secondo cui gli schiavi lavorano poco e male, e che solo gli uomini liberi, entro un ordine capitalistico, possono far crescere l'economia e la civiltà.
Pensare di celebrare il Primo Maggio impedendo ai negozianti di lavorare, quale che sia la loro opinione, significa celebrare un lavoro sottratto alla sua dimensione più propria: a quell'autonomia della persona che non soltanto lo rende veramente produttivo, ma che lo fa anche degno dell'uomo.
Qualcuno potrebbe però pensare che si possa fare un discorso diverso per i supermercati e, più in generale, per i dipendenti di questa o quella attività commerciale. Ma anche in tal caso siamo di fronte a un problema di libertà, che va interamente lasciato all'autodeterminazione contrattuale di datori di lavoro e dipendenti. Non è una materia nella quale i sindaci, i centri sociali o i leader sindacali possano mettere il becco.
A ben guardare, però, l'opposizione all'apertura dei negozi proviene essenzialmente da una difesa di miti e simboli che hanno fatto il loro tempo, soprattutto perché sono stati logorati da chi se ne è servito per coprire pure posizioni di potere. L'idea che il primo giorno del mese di maggio i negozi siano aperti è percepita come offensiva di quella sacralità tutta immanente di cui si nutre l'immaginario sindacale non meno di quello politico. Il risultato è che i dirigenti della Cgil si oppongono al libero commercio nel giorno del Primo Maggio così come troppi vescovi contrastano l'apertura domenicale dei supermercati.
Tanto i primi come i secondi dovrebbero avvertire che non c'è alcuna fede o idealità che possa reggere grazie a imposizioni e divieti. In particolare, i sacerdoti del sindacalismo nostrano non possono pensare di continuare a tutelare il loro ruolo e i loro privilegi all'interno della società senza mai essere chiamati a rendere conto del proprio operato e senza mai ottenere una qualche delega da quanti pretendono di rappresentare. Il timore di un Primo Maggio con i centri commerciali pieni e le piazze dei comizianti vuote è più che fondato, ma un tale scenario è realistico soprattutto a causa del comportamento di chi avrebbe dovuto portare più rispetto ai diritti di chi lavora.
Quanti vogliono imporre agli altri come bisogna trascorrere questa o quella giornata dovrebbero comprendere che poche cose sono più degne di rispetto della libertà dell'uomo e del suo diritto a servire il prossimo: indipendentemente da problemi di calendario.
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