Commento La Marina cambi regole d’ingaggio

I commenti dei nostri lettori on-line sono eloquenti: come è possibile - si domandano - che in mezzo all’Oceano indiano un barchino con cinque pirati a bordo, sia pure armati di mitra e bazooka, riesca a impadronirsi di una petroliera di 266 metri di lunghezza e 22 uomini di equipaggio? Perché le navi che incrociano in quelle acque non imbarcano un paio di guardie che, dotate degli strumenti adeguati, non farebbero molta fatica a colare a picco la lancia degli assalitori prima ancora che possano iniziare l’abbordaggio? Cosa fanno le trenta unità da guerra di una ventina di nazioni dislocate nella zona, visto che dall’inizio del 2011 i pirati sono riusciti a compiere più di un attacco al giorno e sono oggi in possesso di 46 navi e circa 800 ostaggi, per cui pretendono riscatti milionari? Perché la comunità internazionale continua a tollerare un fenomeno che, secondo l’ONU, ci costa annualmente da 5 a 7 miliardi di dollari e sta crescendo in maniera esponenziale?
Rispondere a queste domande non è facile. Alla radice del problema c’è la riluttanza degli armatori a rispondere ai pirati con le armi, per timore di mettere in pericolo gli equipaggi e le stesse navi. I comandanti, perciò, hanno quasi sempre disposizione di limitarsi a reagire con manovre diversive, come improvvise accelerazioni e cambi di rotta, o al massimo con potenti getti d’acqua: se queste manovre riescono (e riescono, va detto, in tre casi su quattro) bene, altrimenti si preferisce permettere ai pirati di salire a bordo e avviare poi il negoziato, per cui sono nate apposite strutture. Gli stessi armatori, che pure si sono visti aumentare i premi assicurativi di 600 milioni di dollari nel solo 2010, hanno anche richiesto alla Ue e alla Nato, che dovrebbero proteggerli, regole d’ingaggio assurdamente restrittive: niente assalti alle navi sequestrate, né in alto mare né quando queste vengono ancorate in attesa del riscatto davanti alle coste somale e potrebbero essere abbastanza facilmente liberate con un'azione di commando. Solo in rari casi queste norme vengono ignorate: l’ultimo è stato un blitz delle teste di cuoio coreane, che per recuperare una petroliera gigante hanno ucciso otto pirati. Ora, tuttavia, almeno gli armatori italiani sembrano avere cambiato idea, richiedendo addirittura la presenza di militari sulle unità a rischio.
Nonostante queste limitazioni, la flotta multinazionale ha ottenuto qualche risultato: per esempio, garantisce un transito abbastanza tranquillo nel Golfo di Aden, organizzando dei convogli scortati. Ma per tutta risposta i pirati hanno allargato il loro raggio d’azione, servendosi di «navi madri» (spesso, gli stessi cargo conquistati in precedenti operazioni) che permettono loro di colpire dall’India alle Seychelles. Per proteggere questa vasta fetta di Oceano, bisognerebbe disporre non di 30, ma di 150 fregate. Quelle che ci sono riescono a sventare una parte degli attacchi e sono anche riuscite a catturare alcune centinaia di pirati. Ma poiché processarli è macchinoso e costoso, e un tentativo di scaricare il compito sul Kenya è fallito, il novanta per cento sono stati liberati e sono tornati alle loro attività predatorie. Tutti sono d’accordo che, per combattere efficacemente il fenomeno, bisognerebbe attaccare le basi dei pirati a terra, situate in gran parte nella Somalia settentrionale, ma nessuno è disposto ad assumersi questo compito.

Perciò, in attesa che gli armatori si stufino di pagare riscatti (238 milioni l’anno scorso) e le nazioni interessate alla sicurezza dei traffici si diano una mossa, i sequestri continueranno; e, salvo imprevisti, anche i 22 della «Savina Caylyn» dovranno rassegnarsi a qualche settimana, o qualche mese, di prigionia.

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