Il commento Il pilastro dello Stato ebraico è l’economia in salute

Quanto durerà la bonaccia che, contro ogni previsione, Israele sta godendosi? Forse più di quanto i soliti profeti catastrofici immaginano, a causa di una congiunzione di fatti, in parte dovuti a Israele stesso, in parte fuori dal suo controllo. Incominciamo dalla situazione interna. L'economia tira con crescenti investimenti di ricerca (5% del Pil), l'immobiliare e l'immigrazione sono in crescita; lo shekel fa aggio sul dollaro; la crescita prevista per il 2010 è del 2,5% con l'alta tecnologia a trainare l'economia. Due avvenimenti sono decisivi: l'entrata sul mercato nel 2011 del gas sottomarino scoperto davanti alla costa di Haifa e l’avvio del terzo centro di desalinizzazione, grazie al quale l'acqua dolce tratta dal mare supererà quella del lago di Tiberiade e dell'acquedotto nazionale. Le ricadute sono anche politiche, perché Israele si rende indipendente dalla Turchia per l'importazione di acqua e dall'Egitto per il gas.
Netanyahu controlla una irriverente ma sicura coalizione di 74 deputati (sui 120 della Knesset) che erode l'opposizione di centrosinistra della signora Livni. La tensione coi coloni non lo preoccupa, dal momento che il fronte dei religiosi è diviso e disposto a compromessi. Sul piano estero la principale preoccupazione di Israele un anno fa non erano gli arabi e l'Iran, ma Obama, a tutt'oggi sospetto per il suo terzomondismo e per alcuni pericolosi stretti consiglieri (Ram Emanuel e Axelrod). Le sconfitte subite dal presidente americano sui fronti diplomatico e militare hanno ridimensionato il pericolo - vero o no - del nuovo corso della Casa Bianca, e rivalutato il peso di Israele come il solo alleato su cui può contare l'America nel Medio Oriente. La rivolta in Iran ha allontanato un intervento militare solitario di Israele contro Teheran e aumentato a Gerusalemme l'influenza dei sostenitori della strategia difensiva elettronica su quella dell'attacco preventivo. Nella contabilità politica regionale restano però in rosso i rapporti incoerenti con l'alleata storica: la Turchia.
Sul piano palestinese le ricadute dell'operazione contro Gaza di un anno fa si sono rivelate negative, soprattutto sul piano giuridico, dove la minaccia di vedere i responsabili politici e militari israeliani incolpati dalla Corte Internazionale di Giustizia resta intatta. Il governo si è visto obbligato ad ammettere che la condotta di quella guerra è stata viziata da una mancanza di sensibilità tanto per l'opinione pubblica internazionale quanto per la debolezza del controllo politico sull'impiego della forza militare. La tensione fra i responsabili militari della difesa e quelli civili della sicurezza resta viva anche nel negoziato per lo scambio del caporale Shalit, in mano a Hamas da 4 anni, con mille prigionieri palestinesi in mano a Israele, impegnando l'autorità e il fisico del premier in inconcludenti, interminabili sedute del governo che hanno inciso sulla sua salute.
La guerra di Gaza è però servita a fare abbassare le richieste di Hamas da 1500 a 1000 prigionieri, a mettere fine al lancio dei suoi missili contro il sud di Israele, a dettare prudenza agli Hezbollah e a indurre gli egiziani a creare una barriera metallica sotterranea lungo la loro frontiera con Gaza per limitare il contrabbando di armi attraverso la rete di tunnel scavati dai palestinesi nella sabbia.

Paradossalmente Gerusalemme trae vantaggio dal rifiuto del presidente palestinese Abu Mazen di riprendere i negoziati. In assenza di pressioni americane, lo stallo è benvenuto per Netanyahu, che probabilmente si augura, assieme al Paese, che questa calma non sia quella che precede la tempesta.

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