Il commento Il pugno di ferro non conviene al Cremlino

OPZIONI Se si adeguerà alle regole seguite dai governi occidentali, Mosca ne guadagnerà in immagine

Sono attentati annunciati: appena sei settimane fa, il 14 febbraio, Doku Umarov, dal 2007 emiro di tutti i gruppi ribelli del Caucaso del Nord, aveva avvertito su un sito islamico che la jihad sarebbe stata presto rilanciata su tutto il territorio russo: «I russi - furono le sue esatte parole - non capiscono che la guerra oggi sta arrivando nelle loro strade, nelle loro case, nelle loro città, non solo in Tv da qualche parte lontana del Caucaso. Con l'aiuto di Allah, avremo grande successo». Non c’è ancora certezza, ma è molto probabile che le due donne kamikaze responsabili per gli ultimi attacchi alla metropolitana di Mosca siano «vedove nere» (cioè mogli di capi guerriglieri ceceni uccisi durante le repressioni dei primi anni Duemila), come quelle che parteciparono alla famosa presa di ostaggi al Teatro Dubrovka nel novembre 2002, o quelle che si fecero saltare in aria a Mosca in due o tre altre occasioni. Per le modalità dell'operazione, per il tipo di esplosivo usato, per la stessa scelta della stazione del metrò vicina alla sede della polizia politica che orchestrò la repressione, non ci sono invece dubbi sulla matrice degli attentati.
Dopo il prologo del 28 novembre scorso, quando una bomba fece deragliare il treno Mosca-Leningrado (26 vittime), siamo certamente di fronte a una ripresa in grande stile della campagna terroristica organizzata dagli indipendentisti ceceni tra il 1999 e il 2004, che soltanto a Mosca provocò 465 morti e oltre duemila feriti. Rispetto ad allora ci sono tuttavia due importanti novità: i ribelli non si annidano più solo in Cecenia, ma sono comparsi numerosi anche nelle due Repubbliche autonome limitrofe, l'Inguscezia e il Dagestan, e nella rivolta pesa ormai più il fattore islamista di quello nazionalista, con relativo aumento dell'influenza di Al Qaida. Per quanto la stampa internazionale non si sia quasi occupata dell'argomento, da diversi siti risulta che negli ultimi mesi c'è stata una forte ripresa degli scontri in tutto il Caucaso del Nord, in cui sarebbero stati uccisi anche due importanti leader della Jihad, Alexander Tikomirov e Anzor Astemirov.
Come reagirà Mosca a questa nuova sanguinosa sfida? Un indizio si può trovare nelle diverse reazioni del premier Putin e del presidente Medvedev: il primo, che ha costruito la sua fortuna politica sulla (spesso brutale) repressione della prima rivolta cecena e ne ha tratto pretesto per concentrare di nuovo il potere al Cremlino soffocando le spinte separatiste, ha annunciato seccamente che «i terroristi saranno annientati»; il secondo ha condannato l'attentato e ordinato di aumentare le misure di sicurezza, «ma senza violare i diritti umani dei cittadini». Se ne potrebbe dedurre che Mosca è divisa tra l'opzione di tornare alla politica della terra bruciata di inizio secolo, che mise effettivamente fine agli attentati, e quella di una reazione più mirata, diretta a colpire le menti della nuova jihad e le loro ramificazioni moscovite senza fare troppe vittime nella popolazione civile delle tre Repubbliche.


La scelta del Cremlino avrà anche importanti implicazioni internazionali: se ricorrerà di nuovo al pugno di ferro, tornerà ad attirarsi le critiche dei difensori dei diritti umani e le prese di distanza dei governi occidentali; se invece si adeguerà alle regole della lotta contro il terrorismo islamico seguite negli altri Paesi, il risultato potrebbe essere una maggiore collaborazione contro quello che, sia pure con diverse etichette e in diversi contesti, è pur sempre il nemico comune.

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