Il commento Se l’ufficio diventa il tuo regno, addio felicità

Gli alcolizzati dal lavoro appartengono a quella categoria di persone che vive la propria professione con la stessa assuefazione di chi non può fare più a meno di bere una buona dose di alcol quotidianamente. Non è una novità che a certi livelli sociali medio-alti la competitività nel lavoro porti a una vera e propria ossessione che tende ad escludere la varietà delle esperienze di vita. Ma non solo i tempi moderni registrano questa ossessione. Per esempio, il filosofo latino Seneca poneva al giovane Lucilio una questione che, purtroppo, ha un sapore marzulliano: si lavora per vivere o si vive per lavorare? Naturalmente la risposta che viene data è la prima, che sembra figlia dell’ovvietà moralista di cui tutti sono maestri. Ma, in verità, la domanda è un po’ più profonda: che sorge dall’osservazione di una società in crisi qual era quella romana al tempo di Seneca.
Se facciamo una capriola di un paio di millenni, troviamo questa volta il filosofo tedesco Spengler che nel suo celebre libro Il tramonto dell’occidente spiegava che il sintomo di decadenza di una civiltà si ha quando il lavoro diventa principio supremo, guida di un popolo, centro di ogni esperienza.
Comunque, va detto, che l’obiezione alla tesi dei due filosofi è semplice: una cosa è il lavoro, altra cosa è quando il lavoro diventa un’ubriacatura che annebbia la vista di ciò che circonda.
Siamo d’accordo. Ma la questione è un’altra: se in una società vivono uomini e donne che fanno del lavoro lo scopo della vita, e se il loro numero aumenta di anno in anno, significa che questa società è malata, che non si lavora per vivere ma si vive per lavorare.
Una parabola pressoché costante, che segna il cammino di queste persone malate di lavoro, è una drammatica verifica della presenza di questa malattia. Appena gli «alcolizzati dal lavoro» vanno in pensione, immancabilmente dichiarano di avere tantissime cose a cui dedicarsi, che non resteranno neppure un minuto con le mani in mano. Trascorrono un paio di anni, e questi entusiasti del lavoro, prima come scopo della vita, poi della pensione, cadono in depressione e in breve tempo muoiono d’infarto.
Guadagnare denaro è gratificante, ma se ci si ubriaca di lavoro non si ha più la lucidità per spendere con un minimo di buon senso il denaro guadagnato. Quest’esigenza che dovrebbe essere vissuta come qualcosa di assolutamente normale, viene disattesa perché cio che dà soddisfazione non è guadagnare il denaro per spenderlo in modo sensato, ma considerare il lavoro come il centro della propria vita, indipendentemente dal guadagno e, forse anche, indifferentemente da ciò che si guadagna.
Abbiamo detto - i filosofi ricordati lo hanno sostenuto - che è appunto una società malata quella che induce all’assuefazione al lavoro. Ma qual è allora una società sana? Quella che fa vivere la varietà e la ricchezza delle esperienze. Facciamo un esempio rimanendo nell’attualità. L’«alcolizzato dal lavoro» non rovina solo se stesso ma il proprio mondo di relazioni. La prima istituzione a rimetterci è la famiglia, che esiste e resiste se al suo interno c’è equilibrio, se ci sono padri e madri che oltre a lavorare si preoccupano dell’educazione dei figli e non la demandano ai nonni o alla scuola.

Una drammatica testimonianza di questa crisi di relazione è la parabola del narcotizzato dalla propria professione: quando smette di lavorare e va in pensione scopre che nulla della vita lo interessa perché non lo ha mai interessato: entra, così, in depressione, si angoscia, muore d’infarto.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica