Il commento La Siria impone a Beirut la «stabilità» iraniana

Niente suona più futile della parola «stabilità» usata ad abbondanza dall’inusuale duo saudita siriano mostratosi in visita a Beirut la settimana scorsa: Hezbollah si frega la mani, mentre cadono missili terroristi su Eilat in Israele e su Aqaba in Giordania, mentre su Hamas piomba un missile che fa 24 feriti di probabile provenienza Hezbollah, mentre palestinesi e israeliani si agitano sulla eventuale ripresa di colloqui. E insieme, strana coppia, si presentano a Beirut Abdullah, il re saudita, e Bashar Assad. il presidente siriano, per una perorazione comune che secondo loro dovrebbe salvare il Libano: «Chiediamo di non pubblicizzare le scoperte del tribunale incaricato di scoprire chi è l’assassino di Rafik Hariri, pena uno scontro micidiale che travolgerà il Libano». Insomma: salviamo Hezbollah, principale fonte di instabilità a Beirut.
Perché i due vengono insieme a tentare di bloccare le rivelazioni del tribunale di Antonio Cassese? I due rappresentano fronti opposti, Bashar Assad, amico intimo dell’Iran e suo tramite nell’armare di missili il maggiore braccio mediorentale di Ahmadinejad, Hezbollah, e anche nell’ospitare e aiutare l’altro migliore amico dei mullah, Hamas. Abdullah siede sulla sponda opposta, sia pure con le contraddizioni legate a una sua simpatia per il fondamentalismo islamico: egli è tuttavia parte basilare del fronte moderato sunnita anti-iraniano, amico dell’Egitto e della Giordania, sostenitore dell’egemonia americana. I due insieme costituiscono un’illusione di compattezza che potrebbe salvare il Libano da una guerra civile fra sunniti e sciiti, con l’inclusione di cristiani e drusi.
Perché guerra civile? Perché si sa che il tribunale è pronto con un’incriminazione da terremoto: il colpevole principale sarebbe infatti Mustafa Badr Al Din, alto rappresentante di Hezbollah, cugino e cognato del famoso terrorista Imad Mughniye eliminato nel febbraio 2008 probabilmente da Israele. Hezbollah verrebbe così di fatto indiziato dell’omicidio che uccise il capo sunnita, oppositore della Siria, amico dell’Occidente. La sua morte esacerbò i rapporti fra Damasco e Riad, di cui Hariri era amico. La rivolta che segnò la sua morte portò alla coalizione del 14 marzo e alla Rivoluzione dei Cedri e al ritiro siriano. Ma Bashar Assad ha mantenuto una presenza tramite il segretario generale del Partito di Dio, Nasrallah, grato dei continui rifornimenti d’armi e affratellato dal rapporto con l’Iran. Nasrallah è così forte in Libano che il figlio di Rafik, Saad Hariri, giovane, sballottato premier, ha richiesto al tribunale di rimandare ogni comunicazione sugli assassini del padre. Anzi, Nasrallah, in una rara conferenza stampa in cui raccontava di essersi incontrato con Hariri, confermava la sua presa sul governo: «Anche Hariri ha detto che semmai si tratterebbe di membri di Hezbollah sparsi, gente confusa che ha compiuto un’azione cui l’organizzazione è estranea». Ma le indagini del tribunale dicono, sembra, che si sia trattata di una imponente impresa che non potrebbe mai essere compiuta da personaggi casuali. Abdullah ha pensato di presentarsi con Assad a Beirut per suggerire un giuoco di recupero della Siria al fronte moderato, gradito agli Usa; e Assad suggerisce, vicino al saudita, un grande giuoco di potere filo iraniano. Insomma, due furbi autocrati.

Hariri sa che sarebbe spazzato via in un momento da uno scontro con Hezbollah. E i sauditi, che dovrebbero proteggerlo, sono là a proteggere la «stabilità» dando una mano all’omertà. Questo è quello che si prepara per il Libano: una stabilità iraniana, checché ne pensi l’Arabia Saudita.

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