Il commento Le sue tesi? Adatte a una dittatura

di Carlo Lottieri
La crisi che sta investendo il mondo è stata letta da più parti come un’occasione per «tornare a Keynes». E così in libreria è pure apparso un libriccino di Adelphi che include una conferenza dell’economista inglese risalente al 1928 (ma pubblicata per la prima volta nel 1931) sul tema Possibilità economiche per i nostri nipoti, insieme con un commento di Guido Rossi. Anche se non toglie né aggiunge nulla alla costruzione teorica che più ha influenzato il secolo breve, il testo keynesiano è comunque curioso, dato che afferma che nell’arco di cent’anni «l’umanità è destinata a risolvere tutti i problemi di carattere economico».
Ovviamente la tesi è indifendibile, poiché una società può anche progredire in breve tempo, ma non vi è certezza in merito e tutto dipende dalle scelte istituzionali e dalle iniziative dei singoli. Per di più una crisi può benissimo acutizzarsi se si adotta una politica di stimoli e nazionalizzazioni in stile Obama, se si aumenta il controllo statale sulle imprese e si rafforza la regolamentazione, se - insomma - si ripetono gli errori (keynesiani) compiuti negli anni Trenta.
Quando riteneva vicina la fine dell’economia Keynes ignorava l’infinito abisso di desideri che si cela al fondo dell’uomo. Fu in questo assai migliore economista Oscar Wilde quando disse: «Toglietemi l’essenziale, ma non privatemi del superfluo». Se l’uomo necessitasse solo di mangiare e bere, Keynes potrebbe (forse) avere ragione. Ma poiché è un tentativo di rispondere ai sogni ben più che ai bisogni, l’economia - quale lotta contro la strutturale povertà umana - non potrà mai scomparire dal teatro abitato dai mortali.
In verità, quello di Keynes è un positivismo piuttosto greve che sorregge una macro-economia dominata da anonime masse fisiche, nella quale non vi è spazio per la soggettività delle preferenze, né per la creatività imprenditoriale. Così quando si chiede perché fino al Settecento il progresso è stato lento, la risposta è che per secoli si sono avute poche invenzioni e scarsa accumulazione di capitale. Egli sottostima l’esigenza di quel complesso coordinamento che può essere assicurato solo dai prezzi di mercato; e in più egli ignora che oltre all’innovazione tecnica è indispensabile una creatività propriamente imprenditoriale, la quale consiste nell’investire dove vi sono opportunità di profitto.
L’autore della Teoria generale, insomma, trascura il ruolo del mercato e quello dell’imprenditore. Ed è interessante come egli enfatizzi quello che chiama «il potere degli interessi composti», quasi a suggerire che la ricchezza avrebbe una capacità di riprodursi autonomamente e in modo indefinito.
Sul piano etico, per giunta, egli descrive il mercato come un universo di individui ossessivamente avari e apre pure la strada a ogni forma di moralismo (come attesta l’articolo di Rossi) e a un’illimitata espansione del potere.

Non a caso, scrivendo nel 1936 la prefazione alla versione tedesca del suo testo maggiore, egli disse che le sue tesi si prestavano molto più a un regime totalitario che a uno basato sul laissez-faire. Quasi candidandosi al ruolo di consigliere economico del Führer.

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