La discussione in corso sul tema delle intercettazioni, e della loro pubblicazione, mi pare ammalata da una confusione a arretratezza di fondo.
La vicenda di Sarah Ferguson e del micidiale video che la ritrae mentre estorce una mazzetta daffari, non è il risultato di uninchiesta giudiziaria, né di unazione di polizia. Così come il Watergate fu opera di unazione di libera stampa, piuttosto che dellFbi o della Corte Suprema.
Non ci deve stupire che in paesi di antica democrazia, come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, vi sia un ricorso alle intercettazioni di meno di un decimo di quanto non accada da noi. E che un dibattito come quello in corso in Italia appaia lì tutto sommato incomprensibile, a unopinione pubblica abituata da sempre al ruolo di controllo della libera stampa e della pubblica opinione.
Nellera della visibilità diffusa e della tracciabilità sociale, è quasi inevitabile che di chiunque abbia un ruolo pubblico, si sappia tutto, o quasi tutto. Non è stato necessario il caso Corona per comprendere come la distinzione del concetto di privacy sia profondamente modificata, in una società che tende inesorabilmente a trasformare quasi tutto in un reality. Basta aprire il web, dai motori di ricerca a Youtube, per capire che cosa intendo dire.
In questa progressiva, inevitabile e anarchica trasparenza, in cui è persino difficile distinguere esattamente, come in uno show, ciò che si vuole rivelare da ciò che si vuol dissimulare, il vero oggetto del contendere è piuttosto il regime di monopolio in cui è vissuto il Paese nellultimo quarto di secolo.
Lo Stato raccoglie informazioni diffuse a spese dei contribuenti e, selettivamente, ciò che merita di essere pubblicizzato ed esposto, viene di volta in volta amplificato o silenziato a seconda delle necessità.
La vicenda di Tangentopoli, a cui si deve la nascita della Seconda Repubblica così comè nelle sue luci e nelle sue ombre, è emblematica. Questo regime, chiamiamolo così, di «trasparenza selettiva», senza che ci sia per forza ununica cabina di regia, ha prodotto leliminazione di interi partiti e aree politico-culturali, salvandone invece con precisione meticolosa altre ugualmente responsabili.
I capi dimputazione per i quali si è creato, che so, il mostro De Lorenzo, non erano sostanzialmente diversi da quelli di La Malfa o Greganti, ma nella pubblica opinione, costruita nella «trasparenza selettiva», quasi nessuno li metterebbe sullo stesso piano. La tecnologia rende oggi difficilissima la protezione di qualsiasi informazione.
Allora, fissati alcuni principi che devono riguardare innanzitutto più le responsabilità dei pubblici funzionari che quelle dei giornalisti, che sono perlomeno calmierati e controllati dal mercato delle informazioni, tanto vale accettare, come già accade nel mondo anglosassone, una visibilità indistinta di cui la pubblica opinione con i suoi contrappesi è, alla fine, il supremo regolatore. Ma giocando però a carte scoperte, e non selezionando accuratamente tra centinaia di migliaia di pagine di «omissis», ciò che di volta in volta si decide di lasciare discretamente filtrare allesterno.
È un po come nel caso dell'obbligatorietà dellazione penale, in cui lobbligo si arresta di fronte all'ordine con cui i fascicoli vengono lasciati impilati sul tavolo del requirente, e dove, ahimè, una certa discrezionalità selettiva cè, e cè stata.
Quanto alla mafia vera, quella che commercia miliardi di euro di ogni male possibile attraverso cinque continenti, credo che questo dibattito faccia un po ridere, nella dimensione cosmica in cui si muove.
Il rischio è anziché che questa discussione contribuisca a gettare unulteriore cortina fumogena, confondendo il gossip politico - mondano - giudiziario con una vera azione di contrasto sovranazionale al movimento di immensi capitali strategici.
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