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Il commento/2 Il dibattito è utile ma il Carroccio non faccia l’Udc

Osservando la trama della minioffensiva innescata da Umberto Bossi, la prima cosa che viene da dire è: tutto serve a un governo che mostra ottima salute nel gradimento pubblico, fuorché una riproposizione del continuo logorio a cui l’UdC ha sottoposto il centrodestra dal 2001 al 2006. L’esecutivo gode di fiducia anche in virtù della sua immagine di compattezza, unità d’azione e capacità decisionale. È un patrimonio di consensi che può però essere sperperato con grande velocità. I momenti di tensione sono fisiologici in un partito, figuriamoci in un’alleanza. Ciò che conta è che non superino mai il confine oltre il quale il conflitto passa dalla buona dialettica allo sfascismo. La Lega Nord, facendosi scudo della «questione settentrionale», ha cominciato a mostrare il volto del disagio, prima sulla giustizia, poi con la replica bossiana all’«impensabile» ipotesi presidenzialista proposta da Berlusconi, poi ancora sull’allargamento della compagine ministeriale. Ora tutto precipita dentro il contenitore della questione-Malpensa. Dietro la lotta sugli slot è fin troppo facile intravedere un parziale smarcamento della Lega dal Pdl, in vista delle elezioni europee e amministrative della prossima primavera. Da un punto di vista tattico, quello leghista può apparire un ragionamento plausibile: nel ruolo dell’alleato fedele ma inquieto, la Lega ha già ottenuto ministeri di peso e una composizione del governo che, nelle posizioni che contano, parla già un accento nordista. Da un punto di vista strategico, stavolta l’irrequietezza può produrre solo danni. La Lega è l’ultimo partito con un’organizzazione di tipo tradizionale, ma è anche un esempio di strategia movimentista applicata alla politica personalizzata e mediatizzata. Il successo della Lega si situa nella connessione alla vocazione nordista del legame carismatico tra il leader Umberto Bossi e il suo popolo, che lo ha seguito fedelmente dentro e fuori la coalizione di centrodestra, alla foce del Po e nei palazzi romani, ma anche nelle oscillazioni tra le istanze separatiste e la più misurata battaglia federalista. Se Bossi indica la strada, i leghisti sono pronti a seguirlo. La natura ibrida di partito-movimento richiede che la Lega, a intervalli periodici, accenda scintille di conflitto aperto con i suoi alleati: in questo modo Bossi riesce a mantenere alta la coesione identitaria del popolo leghista e comunicare, per primo a Berlusconi, il messaggio che senza la Lega il centrodestra al Nord è debole, a rischio di meridionalizzazione. È chiaro che la Lega, data in ascesa nei sondaggi, vuole capitalizzare il consenso virtuale in voti sonanti per riconsiderare la distribuzione di poteri in alcune regioni-chiave, come il Veneto. Se oggi Bossi alza il livello di conflitto, può riceverne giovamento: contraddicendo il proverbio, chi rompe non paga e i cocci sono degli altri. Ma la confusione del livello governativo nazionale con quello regionale, della vittoria dello scorso aprile e il prossimo bottino elettorale, si rivelerebbe nel lungo periodo un grave errore: conta davvero qualche punto percentuale in più nel Nord se viene ottenuto a discapito della qualità dell’azione di governo, della forza coesiva della coalizione e degli stessi interessi strategici del Nord? È sufficiente osservare ciò che sta accadendo nella lotta tra fratelli coltelli nel centrosinistra: l’azione di cannibalizzazione di Di Pietro potrà portare voti in più all’Idv, ma distrugge la credibilità del centrosinistra come possibile alternativa di governo.

E se, nel lungo periodo, la compagine leghista dovesse assumere il volto di Di Pietro o di un Follini d’antan, sarebbe complicato spiegarlo anche ai suoi elettori.

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