Quattro motivi per quattro divisioni europee salite in cima al tetto del mondo. Esaurito lo stupore per l’addio precoce del Brasile, ecco spuntare all’orizzonte di Germania 2006 i segreti di una nuova razza padrona. La stessa, coincidenza fatale o dannata, lo scopriremo solo vivendo, conosciuta in Spagna ’82, quando toccò a Zoff e a Bearzot alzare la coppa al cielo di Madrid sotto gli occhi estasiati di Sandro Pertini. Da allora in avanti il Brasile e/o l’Argentina sono arrivati sempre con le prime, se non proprio davanti al resto della concorrenza. Germania, Italia, Portogallo e Francia rappresentano delle splendide imperfezioni calcistiche. C’è chi non ha attaccanti di valore (il Portogallo del ct Felipe Scolari) ma un gran portiere stregone, Ricardo, para-rigori collaudato (vale come un goleador, alla fine della fiera) e chi si ritrova con una squadra carica di gloria, la Francia, ma con un orgoglio smisurato cui attingere le ultime energie preziose. Zidane, il più celebre e discusso esponente dei campioni di Parigi ’98, ha guidato i suoi nell’impresa del mondiale, l’eliminazione del Brasile. C’è chi, come Klinsmann, ha la meglio gioventù a disposizione e la spinta emotiva di un intero Paese, e chi invece si ritrova con un gruppo di combattenti assistiti dal talento di Totti e dalla mira recuperata di Toni. È il caso didascalico dell’Italia di Marcello Lippi, sgabbiata tra lodi e consensi, poi sbertucciata e infine esaltata per la sua difesa di acciaio.
A ciascuna delle quattro semifinaliste, manca qualcosa per catturare l’occhio e conquistare la scena. Ma tutte e quattro si portano dietro il senso della concretezza e della maturità dei loro condottieri. Uno, Scolari, ha lasciato a casa Rui Costa, l’altro, Domenech, ha tenuto al caldo Trezeguet, il terzo ha escluso persino Totti e Gilardino per far quadrare i conti di un centrocampo assalito dall’acido lattico. Il calcio è diventato un gioco di battaglia, come ha sostenuto ieri Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri di Germania e gran competente della materia. Perciò è fondamentale non l’arte fine a sé stessa, la giocata singola, il numero a effetto del giocoliere, ma la bravura nell’occupare gli spazi, la velocità nel ripartire, con la precisione dei passaggi. L’uno-due, il dai e vai, tra Totti e Zambrotta in Italia-Ucraina, è decisivo rispetto alle finte di Ronaldinho. La stoccata di Henry, sfuggito al controllo brasiliano, ultimo della fila su una punizione da metà campo, è la stilettata da cui non ci si riprende più. Neanche se hai davanti Adriano e Ronaldo, Kakà malconcio e Robinho.
Perciò Rino Gattuso è diventato, quasi a tradimento, uno dei testimonial azzurri del mondiale, esponente di una generazione di marine dediti al calcio. Che sanno lottare, con le striscie nere sul volto, pugnale tra i denti, dentro le linee, tra l’attacco e la difesa, come in una trincea, per rendere un blocco unico la loro squadra. Non è forse un caso infatti se l’eliminazione del Brasile è coincisa con l’assenza di Emerson, il suo puma da guardia, dalla serata di Francoforte. Con l’avvicinarsi dell’ultima settimana di mondiale, la salute fisica delle nazionali è diventata lo spartiacque. E disporre di qualche elemento fresco e riposato nelle prossime due sfide, diventerà una specie di benedizione divina.
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