«Distinguere un dialetto da un altro è, spesso, questione arbitraria: cè anche chi stabilisce una differenza in base a un solo suono, alla presenza o meno di un fonema». Gianfranco Porcelli, professore di Glottodidattica allUniversità cattolica di Milano ora in pensione, ci fa capire che stabilire quale sia una «lingua» è tuttaltro che facile.
Professore, in base a quale criterio gli studiosi dicono che un idioma è una «lingua», e un altro no?
«Non esiste un solo metodo. Alcuni considerano le lingue ufficiali, anche al di fuori dei confini nazionali, come il francese o il tedesco in Val dAosta e in Alto Adige. O come il ladino, che è parente stretto del romancio svizzero. Un altro criterio definisce una lingua quella che abbia una tradizione letteraria alle spalle: come il milanese, il romanesco o il napoletano».
Questi sono dialetti «facili» da distinguere: e gli altri?
«Ci sono catalogazioni ancora più raffinate: cè chi, in base allassenza di un solo suono, considera un dialetto diverso da un altro. Certo non credo si possa affermare che, ad esempio, il dialetto di Carpiano, nel milanese, sia una lingua, solo perché è diverso da quello parlato a Melegnano».
La precisione potrebbe arrivare ad esiti estremi...
«Certo. Un orecchio fino coglierebbe differenze fonologiche anche nel modo in cui parlano due milanesi; ma questo è un altro piano, quello dellidioletto, ovvero il dialetto personale. Il problema è proprio che, fra la lingua standard e lidioletto, cè un continuum: la distinzione è arbitraria, e dipende dai criteri e anche dagli scopi che ci si prefigge».
Aumentano le nuove lingue classificate ma, anche, gli idiomi destinati a scomparire...
«Ci preoccupiamo se si estingue una specie animale o vegetale, ma cè scarsa traccia di una ecologia culturale: eppure, quando una lingua muore, non cè più modo di ricrearla: è un patrimonio che si perde».